La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi

La battaglia di Benvenuto - Francesco Domenico Guerrazzi


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il vento, che soffiava nel corridore, glielo svelse di mano, e lo percosse con impeto alla parete. I doppieri della stanza tutti ad un punto si spensero: ella nondimeno avanzò; e sebbene acute strida la percotessero, avvisandosi di quello che era, senza turbarsi disse alle circostanti: «È qui la mia figlia Yole?» – Matelda, riconosciuta la voce, rispose tutta affannosa: «Santa Oliva di Palermo! siete voi, Regina? Voi ci avete fatto la più grande paura che mai sia stata al mondo.»

      «Matelda,» soggiunse gravemente la Regina Elena «non su la vostra paura, ma di mia figlia io vi ho fatto domanda.»

      «Regina, è nel giardino.»

      «Rimanetevi con Dio, damigelle, e mostratevi in avvenire di più forte spirito, perchè sappiate la paura essere presentissimo segno di animo non retto.»

      Così Elena, senz’altra compagnia, lasciando quelle codarde a rassicurarsi del terrore, e a dolersi del conseguito rimprovero, mosse al giardino reale, dove, poichè alquanto si fu aggirata, occorse in Gismonda. la quale, assorta nel pensiero degli ultimi casi, non le badò, se non dopo che l’ebbe per ben tre volte chiamata. A lei domandava di Yole; e vedutala mesta, volle saperne la causa, e conosciutala confortò la gentile damigella. Quindi unite si mossero a ricercare Yole.

      Avvicinandosi alla gran porta che conduceva fuori del giardino, si offerse alla vista loro una donna distesa sull’erba; accorrevano affannose. – Dio eterno! Yole in quella abbandonata riconoscevano. Elena, vedendole la veste stracciata, e intrisa di sangue, riputandola morta, con orrenda ansietà le si gettò addosso cercando la parte del cuore per sentire se batteva… egli debolmente sì, ma pure batteva: allora guardò la ferita, conobbe essere leggiera, e sospirò.

      «Gismonda, corri alla fontana, e porta un po’ d’acqua.»

      Gismonda partiva. – Elena, postasi a sedere su l’erba. si recò in grembo la figlia, la scinse, e le soprappose una mano alla fronte, pietosamente riguardandola. Ella aveva gli occhi chiusi, e non di meno era bella. La luna la vestiva di una luce modesta, e parea godere d’illuminare quel volto, gentile quanto il suo raggio medesimo. – «Povera figlia!» ad ora ad ora diceva singhiozzando: ma allorchè il pianto le ingombrò gli occhi per modo, che più non potesse contemplare quel volto, gli volse al cielo e parlò:

      «Accettate, Signore, questo sacrificio di lagrime: egli deriva da un’anima profondamente addolorata. Oh! dalla nascita di questa infelice figliuola non ho avuto più un’ora di bene. – Povera Yole! pur troppo tu fosti generata nella sventura,… ma… Dio onnipotente! se voi sapeste che sia per una madre vedere queste guance, su le quali non erano per anco sbocciate le rose della giovanezza, ora a un tratto impallidirsi: che queste membra, non ancora arrivate all’incremento loro, a poco a poco disfarsi, non mi affannereste così. – Povera innocente! La sua anima non conosce il peccato, e pure una pena orribile la turba, le avvelena la vita un secreto tormento, cui ella non può nè allontanare, nè conoscere, perchè Dio si mostra misterioso nei suoi stessi tormenti. Chiamasi pietà questa di ragunare tutte le procelle dell’inverno per atterrare un fioretto, testè apparso sul prato? Tua è questa carne, – quest’anima, tua: ma creasti tu forse per godere l’atroce diritto di distruggere? – Toglitela se ti piace, ma deh! non provarla con tanto dura battaglia… Elena! sciagurata Regina! tu hai ardito mormorare dell’Eterno… – Io? – Signore, le mie pene sono ben grandi… perdonatemi. L’angoscia accieca la mente: perdonate ad una madre, che lietamente darebbe in questo punto la vita, anzichè piangere sul sepolcro dei proprii figliuoli.»

      In questo Gismonda a mani curve, a guisa di tazza, giungeva dalla fontana; ma la fretta fece sì, che appena poche stille di acqua vi si conservassero: queste nondimeno, spruzzate sul volto di Yole, ebbero virtù di ritornarla alla vita. Apriva la vergine languidamente gli sguardi, e tratto un gemito domandò: «Dove sono?»

      «Nel grembo di tua madre.»

      «Oh! non ne fossi mai uscita.»

      «Che? Respingi il grembo che ti ha portato… il seno che ti diè il latte? Santa Maria! anche a questo era riserbata la Regina Elena?… Ah! le mie ambasce si fanno maggiori della mia pazienza.» – Così dicendo lasciava di sostenere la figlia, e, lacrimando disperatamente, cadeva.

      «Gismonda!» disse allora Yole a questa damigella, che sola era rimasta a sorreggerla, «perchè mi ha lasciato mia madre? Le sono forse divenute troppo gravoso incarico le membra di sua figlia? Ah! io incresco a tutti, e a me stessa… – Chi è che piange? Gismonda, dimmi, chi piange?»

      «La madre vostra.»

      «Perchè?»

      «Voi avete desiderato di non averla avuta per madre.»

      «lo ho detto questo?… Io!» esclamò Yole: e il rimorso dell’anima gentile le ricondusse su le guance i colori del pudore. «Sciagurata! Oh! l’ottima delle madri, non vogliate piangere a quelle cose che ho detto, ma piangete piuttosto per quello spirito che mi costringe a dirle. – Certo, il mio cuore non vi assente… ma una forza feroce mi agita l›ossa, e il sangue. Io vi amo, madre mia. vi amo di quell›amore stesso che voi amate me: – prescrivete; ogni qualunque prova, e sia pure quanto si voglia dolorosa, incontrerò lieta per amore vostro. Io non vi offro la vita, che il togliermela sarebbe il più grande benefizio, che il cielo e gli uomini mi potessero fare; ma cessate di piangere per cagion mia… cessate, od io muoio di affanno ai vostri piedi.»

      «Io sono lieta, Yole,» disse la Regina, abbracciando la figlia, ed amorosa baciandola; «ma tu, via, cessa di darmi tanta afflizione. Parla… dimmi: qual cosa mai tanto duramente ti molesta? – Qui nel mio cuore deponi il tuo segreto… nel cuore di tua madre, che darebbe la vita per vederti felice. La tua sorella lo è già: e quando te pure io vedrò così, il giorno della mia morte sarà il più avventuroso di tutta la mia vita.»

      «Gostanza» rispose Yole con accento solenne «è, e si manterrà lungamente felice. Al cielo piacque separare la causa della figlia di Beatrice di Savoia dalla causa della figlia di Elena di Epiro. Su me… su noi pesa un atroce destino. Noi morremo illagrimati, giaceremo insepolti, monumento di pietà, d›invidia, e di ferocia. A che vi arrancate, madre mia, per ricercare nel mio spirito la cagione del dolore? Sollevate gii sguardi; – la causa della nostra disperazione scintilla nel cielo…»

      Elena sollevò gli sguardi all›orizzonte, e vide, o le, parve vedere, la cometa scuotere minacciosa i suoi raggi. Non ne sostenne l›aspetto, ma riabbassata la faccia passò il suo braccio in quello di Yole, e mestamente silenziosa prese a incamminarsi verso il castello. Le seguitava Gismonda, mormorando a bassa voce una preghiera per la pace allo spirito travagliato delle sue dilette signore.

      CAPITOLO QUARTO. OFFESA

      Che temi, animo mio, che pur paventi?

      Accogli ogni tua forza alla vendetta,

      E cosa fa sì inusitata, e nuova,

      Che questa etade l’abborrisca, e l’altra

      Che venir dee creder la possa appena…

      Sono innocenti i figli? Sieno, – sono

      Figli di traditore.

Orbecche, tragedia antica.

      Nella parte occidentale del castello del Conte di Caserta era una cameretta remota nella quale nessuno, per quanto fosse ardito, osava di penetrare. I servi, allorchè nella notte faceva bisogno per alcuna faccenda passarvi vicino, commettevano alla sorte la scelta di quello che doveva andare; nè questi apprendeva mai il suo nome senza impallidire; e sebbene si raccomandasse al suo Santo protettore, e si munisse col segno santissimo della fede, pur tuttavia s’incamminava sempre tutto pauroso, senza volgere la testa, a passi accelerati, mormorando un esorcismo. Ciò non accadeva senza forte motivo, imperciocchè la tradizione portasse che quivi fosse stato commesso un molto terribile delitto; e sovente vi udivano pianti, gemiti, ed urla disperate. V’era perfino qualcheduno della famiglia che giurava su l’Evangelo aver veduto uno spettro di donna con un pugnale nel seno, dal quale sgorgava un vivissimo sangue, farglisi incontro, e dimandarla con voce lamentevole: «Il mio figlio? Il mio figlio?» Insomma, al naturale orrore del luogo si aggiungevano le fantastiche paure di menti superstiziose e ignoranti. Questa camera appariva internamente poco più lunga di dieci passi, altrettanti


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