La caduta di un impero. Emilio Salgari

La caduta di un impero - Emilio Salgari


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esclamò ad un tratto. «Vi è una scala di ferro che conduce quassù». «La scorgi?» «La sento». «Vuoi che accenda una candela?»

      «Pel momento no. E poi noi non abbiamo nessuna fretta, e potremo stringere anche d’assedio la pagoda».

      «E ti prepari a discendere?» chiese Tremal-Naik, vedendolo allungare le gambe verso la scala che aveva scoperto.

      «Per Giove!… Dobbiamo ben entrare in qualche modo in questo tempio se le porte sono tutte chiuse, ed a prova di cannoni». «Bada che non siamo che in dieci, e su due non dobbiamo affatto contare».

      «Come vedi, i prigionieri non hanno armi, quindi non potrebbero esserci di nessun aiuto. Siamo dunque in otto, e ne abbiamo duecento fuori. Con simili forze io scendo anche all’inferno e vado a prendere pel naso compare diavolo». Stava per posare i piedi sui gradini, quando un sibilo leggerissimo si udì.

      Pareva che qualche cosa, probabilmente una freccia, avesse attraversata l’aria, dall’interno della pagoda. Yanez era prontamente risalito rimettendosi a cavalcioni del largo davanzale.

      «Facevo un bell’affare io» disse, armando la sua grossa carabina. «Se quel dardo mi prendeva, avrei anch’io in corpo, a quest’ora, un po’ di quella terribile bava del bis cobra. Fortunatamente hanno fallito il bersaglio». «Lo falliranno sempre?»

      «È per questo, mio caro Tremal-Naik, che mi sono affrettato a mettermi al sicuro. Vorrei però cercare quella freccia che deve essere passata assai vicina a me, e che deve essersi piantata in qualche luogo». «Che cosa te ne importa, Yanez?»

      «Molto» rispose il portoghese. «Voglio vedere di quali armi dispongono gli assediati».

      «Preferirei le armi da fuoco ai dardi. Ti ricordi quelli dei selvaggi del Borneo? Ammazzavano molti dei nostri con una semplice puntura».

      Yanez stava per piegarsi ancora sul finestrone, quando il capo degli sikkari lo trattenne. «Altezza» disse. «Voi volete cercare la freccia?» «Sì, Mahor, e ci terrei assai a vederla».

      «La mia vita non vale quella d’un maharajah, quindi posso gettarla. Nessuno piangerà». «Bada che il veleno del bis cobra non perdona» disse Yanez.

      «Lo so, Altezza; ma le frecce si avvertono prima pel loro sibilo, e si può talvolta scansarle. Lasciatemi vedere».

      Il coraggioso capo dei cacciatori della corte stette alcuni istanti curvo sul largo davanzale del finestrone, ascoltando attentamente, poi allungò le gambe verso la scala di ferro, girando intorno ora l’una ed ora l’altra mano. Ad un tratto trasalì: qualche cosa si era spezzato sotto le sue dita. «Ah!… Eccola!…» esclamò, stringendo subito.

      Un lontano sibilo che si avvicinava rapidamente lo fece avvertito che un altro dardo era stato lanciato, uno di quelli forse che per poco non avevano spento il maharajah. Balzò, lesto come una giovane tigre, sul davanzale, stringendo in una mano un leggero cannello di bambù che portava all’estremità un fiocco di cotone.

      «Ecco la freccia che avrebbe dovuto uccidervi, Altezza» disse a Yanez. «La punta però si è spezzata».

      «Non m’importa» rispose il maharajah. «Volevo solamente sapere se questo dardo era stato lanciato con un arco o con una cerbottana».

      «Il fiocco di cotone lo ha tradito» disse Tremal-Naik. «I paria sono armati di gravatane, armi che non fanno fracasso e che se toccano uccidono quasi sempre».

      «È per questo che ci penso poco a calarmi nel tempio» rispose Yanez. «Quante sono quelle canaglie? Venti, o cento o duecento? Che cosa dici tu, vecchio?»

      «Devono essere in buon numero» rispose il prigioniero. «Non vi consiglierei di assalirli dall’alto. La pagoda è immensa, ha vasti corridoi, mille rifugi che possono sfidare il fuoco anche di duecento carabine, quindi perdereste gran gente senza forse alcun successo».

      «Non siamo venuti qui a vedere il tempio, suppongo. Voglio espugnarlo, mio caro, e vedere se fra i congiurati, per caso, si trova Sindhia». «Rovesciate la porta principale ed entrate coi vostri rajaputi». «Gettarla giù a calci? Deve ben pesare quel bronzo».

      «Signore, voi avete venti elefanti» disse il paria. «Quelle masse enormi spinte indietro, finiranno per sgangherare la porta, ed allora i vostri uomini potranno entrare intimando la resa. Io credo che non vi sarà una vera battaglia».

      «Per Giove!…» esclamò Yanez. «Avevo sottomano una forza enorme e l’avevo trascurata. Faremo crollare anche la pagoda se noi vorremo».

      In quel momento un altro sibilo leggerissimo salì, ed un cannello passò sopra le teste degli uomini, piantandosi in un orecchio di uno dei due elefanti di pietra.

      «Ah!… Canaglie!…» gridò Yanez. «Ci tirano frecce da vicino ora. A me, sikkari!… Scarichiamo una bordata di palle dentro quel covo di cospiratori. Ormai siamo stati scoperti, quindi è inutile prendere delle precauzioni per non farci vedere. Si può provare. Se non si arrendono, metteremo al lavoro i nostri venti elefanti».

      Si accostò con precauzione al finestrone, tenendosi ben stretto contro il davanzale, e con voce poderosa gridò:

      «Uomini di Sindhia, il nuovo maharajah vi ha scoperti. O vi arrendete, o noi prenderemo la pagoda d’assalto».

      Nessuno rispose. Pareva che il gigantesco tempio non fosse abitato che da quell’arciere che aveva scagliate due frecce per poi scappare chi sa dove.

      «Non avete orecchi?» urlò Yanez, il quale cominciava ad impazientirsi. «Rispondete o comando il fuoco».

      Anche questa volta silenzio assoluto. Nemmeno il lanciatore di dardi si era fatto vivo. «Che siano già scappati?» chiese Yanez, guardando il vecchio paria.

      «Che io sappia non vi sono uscite sotterranee, signore» rispose l’indiano. «Sono lì dentro, ve lo dico io, e devono trovarsi in buon numero». «Spara un colpo di carabina, Yanez» disse Tremal-Naik.

      «Ero già deciso, ma vedrai che quei conigli non si faranno vedere. Contano certamente sulla robustezza delle porte di bronzo, e noi conteremo poi sui nostri elefanti».

      Si avanzò di qualche passo ancora e scaricò, dentro la pagoda, la sua grossa carabina, provocando un fracasso assordante.

      «Al bagliore della polvere hai veduto nessuno?» chiese Tremal-Naik, il quale si preparava pure a far fuoco.

      «Non ho veduto che delle statue di dimensioni gigantesche» rispose il portoghese. «Devono essere le solite incarnazioni di Visnù accompagnate forse da tre o quattro cateri». «Non hai veduto nemmeno l’uomo che ha lanciate le due frecce?»

      «Chissà dove si sarà nascosto quel brigante. In questa pagoda vi devono essere degli immensi corridoi, è vero, vecchio paria?»

      «Sì, Altezza» rispose il prigioniero. «Vi sono delle gallerie interne che possono servire d’asilo anche a mezzo migliaio d’uomini».

      «Speriamo che i congiurati non siano tanti, quantunque io abbia la massima fiducia sui miei valorosi rajaputi». «E che cosa facciamo, Yanez, quassù? Non siamo dei marabù».

      «Aspettavo la risposta dei congiurati, mio caro Tremal-Naik» rispose il maharajah.

      «Te la daranno quando noi avremo rovesciate le porte di bronzo» rispose il famoso cacciatore. «E noi le getteremo giù. Prova però prima a fare fuoco anche tu». «Per decapitare qualche statua?» «Nessuno di noi piangerà, te lo assicuro». «Proviamo» disse Tremal-Naik. «Non sono le munizioni che ci mancano».

      Come Yanez, era armato d’una grossa carabina, la cui canna era di purissimo acciaio, di quell’acciaio che viene dal Borneo, dove si trova allo stato naturale. Allungò l’arma, tenendo la testa ben indietro per paura di prendersi qualche freccia avvelenata nella gola, e fece fuoco. Fu un secondo colpo di cannone che si ripercosse lungamente dentro le immense gallerie del tempio, ma anche questa volta nessuno si fece vivo.

      «Corpo di Giove!…» esclamò Yanez, il quale incominciava a perdere la sua flemma ordinaria. «Quei birbanti devono essere scappati tutti».

      «Io credo invece che fingano di non trovarsi raccolti lì


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