La caduta di un impero. Emilio Salgari
penso che quello che non hanno osato tentare i rajaputi per un certo riguardo verso le nostre persone, lo potranno fare i paria nascosti nella pagoda. Non dimentichiamo quelle canaglie le quali possono trovarsi in buon numero e fors’anche ben armati».
«Per Giove!…» esclamò Yanez, facendo un soprassalto. «Non mi ricordavo più di loro. Non ci mancherebbe ora che dovessimo subire un assalto da parte di quei congiurati. E non siamo che in otto, valorosi finché si vuole, ma sempre otto, con due seccature da guardare. Non ci fossero almeno questi prigionieri». «Lasciamoli andare».
«Mai più, mio caro Tremal-Naik. Il vecchio e anche il giovane sono persone troppo preziose».
In quel momento i sei sikkari tornarono dalla loro breve e rapidissima escursione, camminando in gruppo serrato, senza produrre il menomo rumore. Abituati a sorprendere i grossi animali delle foreste e delle jungle, avevano il passo così leggero da non poterli udire passare a pochi metri di distanza. «E dunque?» interrogò ansiosamente Yanez.
«Sono fuggiti tutti, Altezza» rispose il capo dei cacciatori. «In queste foreste non vi è più un rajaputo». «Avete udito barrire i nostri elefanti?» «Sì, ma a grande distanza».
«Molte miglia?» chiese Tremal-Naik, il quale in quel momento pensava al cornac di Sahur.
«Oh, no, a ben poche. Quelle grosse bestie non possono procedere al galoppo fra tutti questi vegetali».
Yanez guardò in viso i suoi fedeli cacciatori, i soli forse veramente fedeli, e chiese loro: «Avreste paura a ricondurci alla pagoda?»
«Siamo sempre a disposizione del maharajah e del sahib suo amico» rispose il capo degli sikkari. «Noi non abbiamo paura né delle tigri, né dei rajaputi, né dei paria. Sappiamo già che il nostro destino è di morire entro qualche selva, dilaniati dalle belve feroci o strozzati dai thugs, e siamo sempre decisi a tutto. Che Vostra Altezza comandi». «Ritorniamo alla pagoda». «Vorreste entrare?»
«Ora che non abbiamo più gli elefanti per rovesciare la porta di
bronzo, ci sarà impossibile». «Potreste ingannarvi, Altezza». «Spiègati meglio».
«Durante la nostra esplorazione abbiamo raccolto una scatola di latta che deve aver contenuto dei biscotti o qualche cosa di simile, e di latta assai spessa, ed abbiamo preparata una bomba». «Tu!…» esclamò Yanez un po’ sorpreso. «La polvere non ci mancava come non ci mancava qualche miccia». «Fa’ vedere».
Un sikkaro si avanzò portando una scatola capace di contenere due chilogrammi di polvere e che era stata tutta bene stretta colle cinghie delle carabine.
«Voi siete meravigliosi» disse il portoghese. «Se questa specie di bomba scoppierà, anche la porta, per quanto salda, crollerà. Toh!… Fra tante disgrazie abbiamo ancora un lampo di fortuna, è vero, Tremal-Naik?»
«Comincio a crederlo anch’io» rispose il famoso «Cacciatore della Jungla Nera». «Non saranno già tutte cannonate che ci giungeranno in pieno petto. L’aver ritrovato il cornac di Sahur è già qualche cosa».
«E sarà più di qualche cosa se lo vedremo giungere piantato fra gli orecchi del suo bestione».
«Io non dubito che possa portarlo via ai rajaputi. Tu sai quanto sono affezionati gli elefanti ai loro conduttori».
«Orsù» disse Yanez, dopo di aver ascoltato a lungo. «La foresta è silenziosa, quindi possiamo rifare il cammino percorso e tornare alla pagoda. Quella maledetta porta voglio vederla rovesciata per misurarmi coi paria di Sindhia. Almeno conoscerò la resistenza ed il coraggio dei miei futuri nemici». «E se quelle canaglie fossero uscite e ci avessero preparato un agguato?»
«No, sahib», disse il capo degli sikkari, «nessuna imboscata. Io odo gli sciacalli urlare verso la pagoda, e ciò vuol dire che da quella parte non si trovano esseri umani, almeno per ora. Hanno troppa paura dei fucili e fuggono subito, appena vedono luccicare un’arma. Altezza, possiamo partire».
I dieci uomini si incolonnarono, ascoltarono un’ultima volta, poi si ricacciarono nel sentiero aperto dai nilgò, procedendo colle carabine puntate. Yanez era sempre dinanzi, col capo degli sikkari.
CAPITOLO SECONDO. LA CARICA DI SAHUR
Quantunque sotto la boscaglia regnasse un’oscurità profondissima, il drappello batteva in ritirata con molta rapidità, ansioso di mettersi momentaneamente in salvo nella pagoda e di attendere là il cornac. Procuravano tutti però di non smuovere le piante, poiché temevano che si aggirassero in quei dintorni, se non i rajaputi, i congiurati i quali erano ben più da temersi.
Non credevano affatto che i paria fossero fuggiti tutti, quantunque nessuno avesse potuto impedirglielo dopo quell’inaspettato tradimento, poiché potevano essere usciti per le altre porte, lasciando invece ermeticamente chiusa quella maggiore.
Nessun rumore rompeva il silenzio della notte. Solamente in lontananza tre o quattro sciacalli, non avendo trovato probabilmente da cenare, sfogavano il loro malumore con delle urla che straziavano gli orecchi. Però gli sikkari, troppo pratici delle foreste, non si avanzavano che con molte precauzioni, potendo improvvisamente trovarsi dinanzi a qualche tigre affamata, ad uno di quei così detti mangiatori d’uomini, che non esitano a gettarsi anche contro parecchie persone per portarne via qualcuna.
Già la pagoda non doveva essere lontana più di duecento metri, quando Yanez ed il capo degli sikkari si arrestarono improvvisamente imbracciando le carabine.
Un’ombra si era slanciata attraverso il sentiero, in piena volata, dieci passi più innanzi, nascondendosi subito in mezzo ad un gruppo di mindi.
«Una tigre?» aveva chiesto il maharajah senza troppo scomporsi, avendone già ammazzate moltissime e senza riportare una graffiatura.
«No, Altezza» rispose il capo degli sikkari, il quale fiutava l’aria. «Io credo che si tratti d’una pantera. Questi non sono i posti delle tigri». «Non ci darà meno fastidi se sarà affamata». «Sono coraggiose e non esitano mai ad attaccare».
«Che abbia intenzione di chiuderci il passo e d’impedirci di raggiungere la pagoda?»
«È nascosta in mezzo a questi mindi, signore. Non perdete di vista quelle piante».
I loro compagni si erano fermati stringendosi attorno ai due prigionieri ed armando le carabine.
Tremal-Naik, dopo d’aver atteso un po’, passò in testa al drappello unendosi a Yanez ed al capo dei cacciatori.
«Non si va dunque?» chiese. «Vorrei vedere quale sarà la belva che avrà tanto fegato da gettarsi su di noi. Apriamoci il passo colla forza, amici».
«Preferisco aspettare» rispose il portoghese. «Se noi facciamo fuoco i paria sapranno regolarsi intorno al posto da noi occupato e non tarderebbero a piombarci addosso».
«Tu puoi aver ragione, ma io ti dico che qualunque cosa deva succedere è meglio affrettarci. Io sono più certo che siamo seguiti dai ribelli». «Hai notato qualche cosa?» «Ho udito poco fa un fischio che doveva essere un segnale».
«Allora preferisco affrontare la bestia» disse Yanez. «Noi sappiamo che è sola, mentre non possiamo sapere quanti sono i paria che si sono messi sulle nostre tracce. Sbrighiamo questo affare fra noi due. Il capo intanto cercherà di indurre la pantera, poiché pare che non si tratti di una tigre, a lasciare il suo rifugio e mostrare il suo muso. Tenere fermi otto cacciatori del nostro valore è troppo!…» «Dove si trova?» chiese l’indiano. «Fra quel gruppo di mindi».
«È ben vicina la birbona. Deve essere assai affamata per tentare un simile attacco e anche…» Si era interrotto bruscamente alzando il capo. «Hai udito, Yanez?» chiese. «Sì, un fischio».
«I paria ci sono alle spalle. Salviamoci sul finestrone della pagoda, giacché non abbiamo staccate le corde, né i ganci».
«Sei pronto?» chiese Yanez al capo degli sikkari, il quale aveva raccolto un grosso ramo secco non essendo possibile trovare dei sassi sotto quella boscaglia. «Quando vorrete, mio signore» rispose il cacciatore. «Getta».
Il ramo,