La perla sanguinosa. Emilio Salgari

La perla sanguinosa - Emilio Salgari


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esaurire la loro provvista di combustibile, avvistavano le alte montagne della isola maggiore Nicobara, presso cui contavano fermarsi alcuni giorni per provvedersi di viveri, prima d’intraprendere la traversata dell’Oceano Indiano occidentale.

      Per non perdere tempo e un po’ anche per paura di venire presi e massacrati dagli isolani, non avevano preso terra in alcun luogo delle Andamane, le quali godevano, specialmente in quell’epoca, pessima fama, nonostante la vicinanza della guarnigione anglo-indiana di Port-Cornwallis.

      Arrestarsi in qualche luogo era però necessario, perché la provvista di carbone stava per esaurirsi e perché durante quella corsa non avevano mangiato che due biscotti, i soli che avessero trovato per caso nella cassetta del macchinista, dimenticati là da chissà quanto tempo, e non avevano ingollato una goccia d’acqua.

      «Muoviamo diritti su Karnicobar, – aveva detto il quartiermastro della Britannia, che conosceva quasi tutte le isole disseminate nel vastissimo Oceano Indiano, a ponente ed a levante della penisola indostana. – Colà troveremo acqua e viveri e aspetteremo il passaggio del Nizam. Vi raccomando soprattutto di tenervi lontano dagli isolani, onde non informino i nostri inseguitori della nostra presenza.»

      Dopo di ciò avevano caricato il fornello fino alla bocca e accelerato la corsa, essendo il sole prossimo al tramonto.

      Le Nicobare formano un arcipelago di dieci isole disseminate a gran distanza le une dalle altre, di cui la grande Nicobara, che è la più meridionale, ha una lunghezza di quindici leghe. Le altre più notevoli sono Sambelang, Ketchoul, Komarta, Nancovery, Priconta, Peressa, Pebraourie, Pabonin e Karnicobar.

      Tutte sono assai montagnose e coperte di alberi, specialmente di cocchi, di betel, di areka, di tek, di sassofrassi assai aromatici e di karum i quali producono delle frutta assai migliori di quelle degli alberi del pane di Otaiti, che pure sono ritenuti i migliori del mondo.

      Il clima delle Nicobare è però assai malsano, a causa delle piogge incessanti che vi cadono, prodotte dai monsoni; e le febbri terribili che vi regnano hanno reso sempre impossibile agli europei la colonizzazione di quelle terre, che pure hanno dei comodi porti dove le navi potrebbero trovare sicuri rifugi.

      E infatti tre tentativi andarono all’aria. I danesi per primi, i quali vantano tutt’ora dei diritti su quell’arcipelago, fondarono uno stabilimento nel XVII secolo nella vasta baia dell’isola Komarta, che chiamarono Nuova Zelanda, ma poco tempo dopo dovettero abbandonarla a causa delle febbri che distruggevano rapidamente i coloni. Ne tentarono un’altra sull’isola Nancovery, che ebbe ugual sorte. Anche gli austriaci, che nel 1778 occuparono Komarta abbandonata dai primi, non ebbero miglior fortuna e si videro costretti a sgombrarla più che in fretta e salpare le ancore.

      Una vera disdetta, perché quelle isole sono ricche, producono piante ricercate, abbondano di selvaggina, soprattutto di buoi che, importati dagli europei, si sono straordinariamente moltiplicati dopo il loro abbandono di quelle terre: e inoltre gl’indigeni non sono così selvaggi, né così fieri come gli Andamani, anzi sono timidi e ospitali, purché non si tocchino le loro donne di cui sono estremamente gelosi.

      La scialuppa, che divorava voracemente gli ultimi pezzi di carbone fossile con grande rincrescimento di Jody, un’ora dopo il tramonto giunse a poche gomene dalle coste occidentali di Karnicobar, che erano coperte da foltissime piante. Passata al largo della baia dei Saoni, dove il quartiermastro sapeva che vi erano dei villaggi, superò un passaggio aperto nel banco corallifero e andò ad arenarsi dolcemente in fondo a una minuscola rada, dove sboccava un fiumicello e che pareva deserta.

      I tre uomini spensero il fuoco per non sprecare inutilmente quel po’ di carbone che ancora bruciava, e dopo aver legato solidamente la scialuppa, scesero a terra portando con sé la carabina, la pistola e due coperte, le sole che possedevano e colle quali contavano di farsi più tardi delle vele.

      Le due rive del fiumicello erano ingombre di splendidi alberi, che proiettavano una fitta ombra sulle acque biancastre; non era quindi improbabile che ve ne fossero anche di quelli portanti frutta.

      «Cerchiamo la cena innanzi tutto, – disse Will, che pareva lietissimo di trovarsi a terra a così grande distanza dal penitenziario. – Spero che passeremo una buona notte.»

      «Vi sono abitanti su quest›isola?» chiese Palicur.

      «Pochi villaggi, ma non dobbiamo preoccuparci degli indigeni. Anche se ci scoprissero non ci darebbero fastidi, avendo imparato a rispettare gli europei.»

      «È vero che hanno la coda, signor Will?» chiese Jody.

      «Lo si è creduto un tempo, – rispose il quartiermastro ridendo. – E infatti, veduti ad una certa distanza, pare che veramente l›abbiano, usando questi isolani portare un lembo di pelle che lasciano pendere lungo il dorso.»

      «Che il Nizam venga a cercarci qui?» chiese Palicur.

      «È probabile che faccia una punta nella baia dei Saoni, per interrogare gl›indigeni; per questo preferirei che non ci scorgessero. Questo luogo però mi pare deserto e in mezzo alla foresta non ci troveranno facilmente. Va’ a cercare ostriche e granchi sulla spiaggia, Jody, mentre noi cerchiamo le frutta.»

      «Signor Will, – disse il macchinista, arrestandosi. – Vi sono bestie feroci qui? Non vorrei cadere fra le unghie di qualche tigre.»

      «Tigri no, coccodrilli o meglio gaviali sì, e anche serpenti velenosissimi. Guarda dove posi i piedi.»

      Mentre il macchinista s’avviava verso la spiaggia, l’inglese e il malabaro si cacciarono nella foresta, sopra la quale volteggiavano dei giganteschi pipistrelli, e poco dopo s’arrestavano dinanzi ad un albero i cui rami si piegavano sotto il peso di certe frutta rugose, grosse quasi quanto la testa d’un bambino.

      «Ecco un karum che ci fornirà quanto pane vorremo,» disse Will, che lo aveva subito riconosciuto.

      «Un mellori, signore,» disse il malabaro.

      «Sì, lo chiamano così i portoghesi.»

      «Potremo caricare la scialuppa.»

      «E conservare la polpa se avremo la precauzione di farla fermentare qualche giorno sotto terra, – aggiunse il quartiermastro. – Puoi salire, Palicur?»

      «Le ferite non mi danno ormai più alcun fastidio, signor Will.»

      Il pescatore di perle s’aggrappò ad alcune piante parassite di nepentes che portavano i loro vasi semiricolmi d’acqua più o meno limpida e, raggiunto un ramo, fece cadere al suolo una dozzina di quelle grosse palle.

      Stava per discendere, quando verso la spiaggia udirono Jody urlare: «Preso, accorrete o mi scappa!»

      Il quartiermastro fece un salto verso la carabina che aveva appoggiato al tronco dell’albero, mentre il malabaro si lasciava cadere a terra. -

      «Presto, Palicur, – disse Will, slanciandosi a corsa sfrenata. – Qualcuno può minacciare Jody.»

      Attraversarono come un lampo il lembo della foresta e si slanciarono verso la spiaggia, dove il mulatto pareva lottasse contro qualche cosa di enorme e di non ben definito, che egli tempestava di legnate poderose.

      «Che c›è, Jody?» gridò il quartiermastro, preparandosi a far fuoco.

      «Aiutatemi a rovesciare questa montagna di carne, prima che fugga in mare, – rispose il macchinista. – Ci vorrebbe una gru!»

      Il quartiermastro ed il malabaro si erano fermati dinanzi ad una testuggine di dimensioni così enormi che prima di allora non ne avevano visto l’eguale, ma che riconobbero subito.

      «Una tartaruga elefantina! – esclamò Will. – Hai ragione di dire che è una vera montagna di carne e che noi tre non la potremo rovesciare. Ci vorrebbero dieci facchini per muovere questa massa.»

      Quel rettile era infatti straordinariamente grosso. Non era più lungo di un metro e mezzo, ma il suo guscio nero e robustissimo s’innalzava formando una specie di cupola, sotto cui dovevano trovarsi per lo meno duecento chilogrammi di carne. Quei mostri, la cui vista fa pensare agli animalacci dell’epoca antidiluviana, non sono rari nell’Oceano Indiano, anzi abbondano in certe isole come nelle Maldive,


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