La riconquista di Monpracem. Emilio Salgari

La riconquista di Monpracem - Emilio Salgari


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di aprire delle falle a fior d’acqua ed affondare il vapore in meno di cinque minuti.

      – Giù la scala! – comandò subito il capitano, vedendosi ormai perduto.

      Lo yacht, una splendida nave a vapore di trecento tonnellate, armata di due grossi pezzi da caccia, s’avanzò fra i prahos e venne ad ormeggiarsi sul tribordo del piroscafo, proprio sotto la scala.

      Un uomo salì subito, seguìto da trenta malesi armati di carabine, di parangs e di kriss.

      Lo sconosciuto che voleva divertirsi indossava un elegantissimo costume di flanella bianca e portava in testa un ampio sombrero colle ghiande d’oro, come usano i ricchi messicani.

      Nella fascia di seta azzurra portava un paio di pistole a doppia canna col calcio d’avorio laminato in oro ed una corta scimitarra di manifattura indiana colla guaina d’argento finemente cesellato.

      I marinai avevano portati dei fanali, cosicché lo sconosciuto comparve finalmente in piena luce.

      Era un bell’uomo di statura alta, fra i quarantacinque e quarantotto anni, con una lunga barba ormai brizzolata abbondantemente.

      Fissò i suoi occhi scuri, quegli occhi che sono comuni solamente agli spagnuoli ed ai portoghesi, sul capitano dicendo:

      – Buona sera, comandante. —

      Lo sconosciuto parlava tranquillamente come un uomo che è sicuro di sé.

      D’altronde i trenta malesi si erano allineati dietro di lui, piantando sul ponte, con un rumore pauroso, le enormi lame dei loro parangs.

      – Chi siete? – chiese il capitano sbuffando.

      – Un nababbo indiano che ha voglia di divertirsi – rispose lo sconosciuto.

      – Voi, un indiano? Che carote mi venite a vendere?

      – Ho sposato una rhani che governa una delle più popolose provincie dell’India e perciò posso farmi passare per un indiano, quantunque io sia nativo del Portogallo.

      – E con quale diritto hai fermato la mia nave? Corpo d’un tuono! Farò rapporto alle autorità di Labuan.

      – Nessuno ve lo impedirà.

      – State certo che lo farò, signor…

      – Yanez.

      – Yanez, avete detto? – esclamò il capitano. – Io ho udito ancora questo nome.

      Voi dovete essere il compagno di quel formidabile pirata, che si fa chiamare pomposamente la Tigre della Malesia.

      – V’ingannate, comandante; in questo momento non sono che un principe consorte che viaggia per svagarsi.

      – Con un seguito di trenta prahos!

      – Se vi ho detto che sono un nababbo! Questi piccoli capricci me li posso levare.

      – Abbordando le navi in piena corsa come un volgare pirata! Che cosa pretendete voi? La consegna del piroscafo ed il saccheggio dei passeggeri? —

      Yanez si mise a ridere.

      – I nababbi sono troppo ricchi per aver bisogno di queste miserie, signor mio. Lo Stato frutta a mia moglie milioni e milioni di rupie.

      – Concludete. È da un po’ che voi mi canzonate.

      – Date ordine ai passeggeri che riprendano le danze e rassicurateli sulle mie intenzioni.

      – Siete straordinario! – esclamò il capitano, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

      – Vi avverto che se non obbedite subito lancerò trecento uomini all’abbordaggio della vostra nave, e son uomini che non hanno mai avuto paura né del Profeta né del diavolo.

      Vi avverto inoltre che dispongo di settanta bocche da fuoco, che vi copriranno tutti di mitraglia, nel caso che vi saltasse il ticchio di opporre la menoma resistenza.

      Guidatemi, comandante; pagherò lautamente il vostro disturbo. —

      Si levò dalla cravatta di seta azzurra una superba spilla d’oro montata su un diamante grosso come una nocciola e gliela porse, aggiungendo:

      – Chiudete gli occhi e prendete. È un diamante del Guzerate d’un’acqua bellissima. —

      Vedendo che il capitano, al colmo dello stupore, non si muoveva, lo prese per la giacca e gli piantò la spilla all’altezza del colletto, dicendo:

      – Accontentatemi, dunque! Il ballo sarà ben pagato! —

      Ormai ogni resistenza era inutile.

      I prahos avevano compiuta la loro congiunzione intorno al piroscafo ed i loro equipaggi non aspettavano che un comando del nababbo, per montare all’arrembaggio e spazzare via tutti, uomini e donne.

      – Venite – disse lui coi denti stretti, bestemmiando in cuor suo, quantunque avesse ricevuto un regalo principesco. – Voi mi date la parola d’onore che rispetterete i miei passeggeri?

      – Parola di rajah! – rispose l’uomo che si chiamava Yanez, con una leggera punta d’ironia. – Non sono già un bandito, anche se ho una scorta di prahos malesi.-

      Attraversarono la tolda e scesero insieme nel gran salone centrale splendidamente illuminato.

      I trenta malesi, silenziosi, minacciosi, li avevano seguiti, tenendo snudati i loro terribili parangs, coi quali d’un sol colpo potevano far volare una testa.

      I banditi dell’arcipelago si schierarono all’estremità del salone, su due linee compatte, mentre Yanez si avanzava col sombrero in mano verso i passeggeri, che non osavano più fiatare, e diceva:

      – Signore, riprendano, prego, le loro danze, e gli uomini facciano da cavalieri.

      I miei uomini non ammazzeranno nessuno, malgrado il loro aspetto poco rassicurante, perché sotto il mio pugno di ferro diventano agnellini. —

      Una bionda miss tutta vestita di bianco e con ricchi pizzi sedeva al pianoforte, e guardava da vera inglese, più con curiosità che con apprensione, la scena che stava per succedere.

      Il tenore invece era prudentemente scomparso per paura che la sua voce guastasse i nervi del terribile uomo, che comandava da vero padrone su una nave non sua.

      – Miss, – disse alla suonatrice, inchinandosi galantemente e togliendosi il cappello – poco fa, navigando al largo, io ho udito suonare un waltzer che da molti anni non ho più danzato.

      Vorreste essere così gentile di ripeterlo?

      – Suonavo il Sangue Viennese, signor…

      – Chiamatemi pure milord, o meglio Altezza, essendo io un rajah indiano che ha già dato non poco da fare ai vostri compatriotti.

      – Ebbene, Altezza? – balbettò la miss.

      – Replicatemi quel waltzer, ve ne prego. L’ho danzato una sera a Batavia e me lo ricordo ancora.

      Quello Strauss, bisogna dirlo, è insuperabile nello scrivere i waltzer.

      Ma vi era qualcuno poco fa che cantava in questa sala. Dove si è cacciato quel signore? Non sono già un’orca marina per divorarlo in un solo boccone e me ne appello a voi, signore e signorine.-

      Un giovinotto roseo e paffuto coi capelli biondi e gli occhi azzurri fu spinto innanzi da una energica signora olandese od inglese che fosse, la quale gli disse:

      – Canta dunque Wilhelm! Sua Altezza desidera udirti.

      – Più tardi signora, – rispose il portoghese. – L’alba non è ancora spuntata. —

      Il capitano, che si mordeva rabbiosamente i baffi malgrado il magnifico regalo che aveva ricevuto e che non doveva valere meno di mille rupie, si fece minacciosamente innanzi a Yanez, chiedendogli:

      – Voi avete detto che l’alba non è ancora spuntata?

      – Chiamatemi Altezza prima di tutto. Io vi ho chiamato finora capitano.

      – Sia pure, Altezza; ma vi chiedo se voi avreste l’idea d’immobilizzare il mio piroscafo


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