La tigre della Malesia. Emilio Salgari
le fascie della ferita, state rimosse durante il delirio, poi udendo il lieve mormorar di un ruscelletto vi si trascinò e spense la sete. La febbre cessava a poco a poco e vi era da credere che all’indomani stesse assai meglio della sera.
Trovò un posto fra i cespugli dove si accomodò alla meglio a pochi passi dal ruscelletto, e aspettò pazientemente il mattino, cogli occhi fissi al levante spiando ansiosamente l’apparir di qualche chiarore che segnalasse l’aurora.
Le ore passavano lente lente quasi avessero raddoppiato la lunghezza abituale, là sotto quelle fitte foreste, dove l’oscurità era più fitta che mai. Il tempo passava con una lentezza spaventevole pel ferito, abbandonato senza risorse fra quegli alberi, fra atroci sofferenze. Contava minuto per minuto, più ancora, battito per battito.
Qual supplizio! Egli ruggiva in cuor suo, e ideavasi orologi ai quali faceva rotear le sfere; faceva volare nella sua mente il tempo, maledicendo la lentezza di quei minuti altre volte sì rapidi e bestemmiava contro il sole che non appariva mai. Al di sotto dei grandi alberi poi udivasi le urla delle fiere che vagavano in cerca di preda, altro supplizio non meno spaventoso, dove il ferito provava tutte le emozioni della paura malgrado il suo coraggio, quando quelle urla andavano avvicinandosi. Se fosse stato sano, se ne sarebbe bene infischiato di loro, ma sfinito di forze, quasi impotente di lottare, in quella pericolosa situazione, armato di un solo kriss, era ben altra cosa.
Le tigri, forse le ultime che scorrazzavano le foreste, ruggivano balzando nei cespugli o arrampicandosi sui rami per attendere la selvaggina all’agguato, a cui si univano le strida delle scimie accoccolate sulle più alte cime degli alberi, affannate a respingere quei potenti carnivori o a mettersi in salvo, e l’abbaiar dei cani vaganti e il grugnir dei babirussa o dei cignali scovati.
Sandokan prestava orecchio a tutti questi concerti, a quei differenti rumori, rattenendo i gemiti, immobile fra i cespugli, col kriss in mano. Non si inquietava che delle tigri, quei carnivori potenti che avrebbero potuto piombare su di lui e farlo a brani ancor prima che avesse a pensare a difendersi. Vi era da stare all’erta tutta la notte.
Le ore, lente lente, passarono alfine, dopo una notte passata fra il delirio e l’angoscia. La luna che scintillava al di sopra degli alberi, senza tramandar uno di quei bei raggi d’argento al di sotto, tanto era fitto il fogliame, cominciò a impallidir a poco a poco man mano che una luce biancastra dapprima e rossa un po’ più tardi compariva al levante e le stelle impallidirono con essa. Il pirata respirò; le tenebre se ne volavan via dinanzi alla luce. Il sole apparve come improvvisamente illuminando la foresta, facendo tacere tutti quei concerti notturni, penetrando anche nei più reconditi luoghi. Sandokan si scosse trascinandosi fino al rivoletto d’acqua, dove lavò la ferita sempre infiammata e sempre dolorosa, applicandovi nuove filaccie e radici masticate.
Era estremamente debole, ma la febbre era cessata, un segno infallibile per credere che la guarigione benché lenta incominciava. Egli risolse di compierla ad onta di tutti gli ostacoli.
Abbisognava del cibo per richiamare le forze e rinnovare il sangue, quindi la necessità di trovarne. Non aveva che un kriss, un’arma quasi inutile per atterrare la selvaggina che il ferito non avrebbe potuto raggiungere, ma se non poteva contare su di essa, poteva almeno contare sugli alberi fruttiferi, che in quelle foreste non mancano.
Labuan, quantunque sia un lembo di terra, gode la medesima feracità di Borneo, dalla quale pare sia stato staccato in seguito a qualche formidabile cataclisma. Tutti gli alberi della Malesia hanno i loro rappresentanti, senza dimenticare anche il velenoso upas che si mostra in qualche luogo non troppo recondito dell’isola.
Non manca né di sagù, né di magnifici artocarpi, né di cavoli palmisti, né di canne da zucchero, piante che possono dare un alimento, se non troppo sostanzioso, almeno salubre ed eccellente. Sandokan non ignorava ciò, e quantunque la ferita lo facesse sempre soffrire, si mise in cerca di uno di quegli alberi, camminando come un ubbriaco o trascinandosi come un serpente quando le forze lo abbandonavano, arrestandosi per riprendere lena e ricominciando la penosa marcia fra fitti cespugli.
– Oh! troverò bene io qualche cavolo palmista o qualche sagù, che abbia a sfamarmi – mormorava egli continuando a strisciare fra erbe taglienti e acute spine. – Animo, non lasciamoci abbattere finché l’energia non viene meno, e le forze mi sorreggono, sono ancora Sandokan, la Tigre della Malesia.
Attraversò i cespugli in mezzo a centinaia e centinaia di tronchi, che si innalzavano in mille guise, gli uni più alti degli altri, inclinati o diritti o torti e lisci, frondosi o semi-spogli, e si arrestò dinanzi un piccolo albero, di tre o quattro metri di altezza, le cui foglie erano ricoperte di una fina polvere biancastra. Lo conobbe subito.
– Un sagù! – esclamò egli.
Infatti il prezioso albero, così comunemente sparso in tutta la Malesia, faceva capolino fra tutti gli altri, circondato da erbe gigantesche e da cespugli spinosi. È una delle piante più utili che oltre crescere spontaneamente nelle foreste viene con premura coltivata dagli indigeni, somministrando essa una fecola nutritiva al sommo grado che fa le veci della farina.
Non viene molto alta, tre o quattro metri al più, fa parte della gran famiglia delle palme, alle quali occorrono ben sette anni per giungere al loro pieno sviluppo e che amano i luoghi paludosi o almeno umidicci. Il sagù, la sostanza farinosa e piacevole che essa dà e che viene smerciata in gran quantità su tutte le isole della Malesia, non è che la midolla della pianta, bianca di colore, umida, nicchiata fra gl’interstizi di una fitta rete fibrosa, che si taglia a pezzetti rammollendola nell’acqua ottenendone ben un cento o centocinquanta chilogrammi.
Era una vera fortuna pel ferito l’incontro di un albero sì prezioso. La polvere biancastra sparsa sulle foglie indicava che la fecola era giunta a perfetta maturanza; nulla di più facile che cibarsene.
Sandokan, adoperando il kriss, si mise all’opera febbrilmente. Tagliò a pezzetti la parte fibrosa tanto da poter bastare per alcuni giorni, la tuffò per pochi minuti nel ruscello, poi si mise a morderla per calmare la fame che cominciava tenagliarlo trovando un po’ di sollievo in quel magro pasto.
Non bastava. Aveva un organismo di una robustezza eccezionale; bisognava trovare qualche cosa da aggiungere a quel pasto, della carne se fosse stato possibile. Impotente di abbattere qualche capo di selvaggina, si rivolse al mare cercando qualcuna di quelle enormi ostriche che quattro individui di non comune appetito sono imbarazzati a divorare. Il mare non era troppo lontano; lo udiva muggire e frangersi sulle rupi e sulle scogliere. Raccolse la sua provvista, bagnò ancora una volta la piaga e facendo sforzi da gigante camminò o meglio si trascinò fino alla spiaggia.
– Posso trovare qualcuna di quelle ostriche giganti – mormorò egli. – Il mio sangue è povero, bisogna rinnovarlo. La guarigione verrà dopo. Tagliò un bambù di quindici piedi d’altezza e ne aguzzò una delle estremità col kriss, fatto ciò si spinse nell’acqua vicino alle scogliere, scandagliando i crepacci, sostenendosi a mala pena contro l’impeto della risacca che si faceva sentire con qualche violenza.
Perlustrò ad una ad una le fessure facendone uscire frotte di pesciolini, troppo agili per venire afferrati, mosse le alghe in mezzo alle quali si appiattavano lunghe anguille, frugò sui banchi di sabbia rimescolando ostriche piccole e granchi, e continuò ad avanzarsi coll’acqua fino alle ginocchia, avvicinandosi a un banco sabbioso di pochi piedi sott’acqua.
– L’ostrica non deve mancare là, su quel banco, che si presenta a sì buon punto – pensava egli.
E infatti il marinaio non s’ingannava. Vide una di quelle ostriche colossali chiamate di Singapura, a metà seppellita nelle sabbie, capace di nutrire per lo meno due uomini. La raggiunse tuffandosi fino alle anche, si curvò, e con uno sforzo che gli costò più di un gemito, la strappò dalle sabbie.
– Ecco ciò che io cercava; che importa ora se sono ferito quando accanto a me ho un ruscello e dei viveri? Non andrò no, a battere la porta delle giacche rosse finché le forze mi resteranno; vivrò nei boschi come una tigre, e una volta guarito saprò ben io trovare la via per ritornare a Mompracem. Del resto, i miei uomini non mi hanno dimenticato.
Raggiunse la riva affranto, dove sostò, sedendosi sulla grande ostrica, che aveva rinchiuso prudentemente i suoi bivalvi. Occorreva