Le figlie dei faraoni. Emilio Salgari

Le figlie dei faraoni - Emilio Salgari


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le spalle, stava al timone.

      Era un bell’uomo sulla quarantina, colla pelle solamente un po’ abbronzata e che incarnava il vero tipo dell’egiziano antico: alto, piuttosto magro, con spalle larghe e piene, le braccia nervose terminanti con mani lunghe e fini, le gambe secche coi muscoli dei garretti assai pronunciati, come la maggior parte dei popoli camminatori.

      Sul suo viso vi era una espressione di tristezza profonda, che si rifletteva viva nei suoi grandi occhi nerissimi, quella tristezza istintiva che si osserva anche oggidì negli egiziani moderni.

      Appena la barca ebbe toccata la riva, che in quel luogo era alta e coperta da palmizi splendidi, l’egiziano diede ordine agli etiopi di gettare un pontile di legno, poi s’accostò ad una specie di tamburo di grosse dimensioni, in forma d’imbuto e si mise a percuoterlo poderosamente, intanto che uno dei suoi uomini dava fiato ad un flauto, traendo delle note acutissime che si potevano udire a qualche miglio di distanza.

      Quella musica, ingrossata dai colpi sonori del tamburone, durò parecchi minuti, coprendo il gorgoglìo delle acque rompentisi contro le rive e sugli isolotti sabbiosi che ingombravano il maestoso fiume, e propagandosi intensamente sotto le vôlte di verzura.

      L’egiziano stava per far segno al suonatore di flauto di cessare, quando sbucarono da una macchia Ounis e Mirinri.

      «Che Râ ti porti buona fortuna, Ata,» gridò il sacerdote. «Io ti conduco il futuro Figlio del Sole. Il fiore d’Osiride e Memnone l’hanno riconosciuto.»

      «Era ora,» rispose l’egiziano, attraversando il pontile e scendendo sulla riva. «Tutto l’Egitto freme, impaziente di vedere il suo legittimo re.»

      S’avvicinò a Mirinri, che si era fermato, guardando con una viva curiosità il comandante di quella bella barca e gli si inginocchiò dinanzi, baciandogli l’orlo della veste.

      «Salute eterna al Figlio del Sole,» gli disse. «Salute al discendente del grande Teti.»

      «Chi sei?» chiese Mirinri, alzandolo.

      «Un amico devoto di tuo padre e di Ounis,» rispose l’egiziano, «e vengo a prenderti per condurti a Menfi. Il tuo posto è là e non fra le sabbie del deserto.»

      «Fidati di lui, come di me stesso» disse Ounis, volgendosi verso Mirinri. «È stato un fedele amico di Teti, fu anzi lui a rapirti dal palazzo reale ed a metterti in salvo, prima che nella truce mente di Mirinri Pepi nascesse l’idea di trovare qualche mezzo per sopprimerti.»

      «Se un giorno io salirò davvero sul trono dei miei avi, io ti mostrerò la mia riconoscenza,» disse il giovane Faraone.

      «Hai veduto a passare i fuochi che io ho affidati alle acque del Nilo?» chiese Ounis…

      «Sì,» rispose Ata, «li ho fatti fermare al di sopra di Pamagit, onde le spie dell’usurpatore non potessero sospettare qualche cosa. Bada che dovunque si veglia, perché a corte si sospetta che il figlio di Teti non sia morto.»

      «Chi può avere tradito il segreto che ho custodito così gelosamente per tanti anni?» chiese Ounis, impallidendo.

      «Lo ignoro, ma io so che un giorno una barca montata da una principessa ha rimontato il Nilo, fino a questo luogo, per ordine del re. Vi era su quella un uomo che aveva veduto più volte il giovane Mirinri, prima che io lo rapissi.»

      «Io ho veduto quella principessa, anzi l’ho salvata mentre stava per essere divorata da un coccodrillo,» disse Mirinri.

      «E gli uomini che montavano quella barca ti hanno veduto, Figlio del Sole?» chiese Ata, con apprensione.

      «Sì.»

      «Non ti hanno detto nulla?»

      «Assolutamente nulla.»

      «Vi era qualcuno che ti osservava attentamente?»

      «Mi parve.»

      «Ti rammenti, Figlio del Sole, che cosa portasse sul capo?»

      «Un berretto molto alto, che s’allargava verso la cima, adorno di simboli d’oro in forma di dischi e di corna.»

      «Ed indosso che cosa aveva?»

      «Una lunga ciarpa ed una pelle di leopardo annodata fra le due spalle.»

      «È lui!» esclamò Ata, facendo un gesto di rabbia.

      «Chi lui?» chiesero ad una voce Mirinri e Ounis.

      «Il gran sacerdote di Iside. Me lo immaginavo.»

      «Spiegati meglio, Ata,» disse Ounis.

      «Più tardi: imbarchiamoci e partiamo subito. Sono certo che qualche cosa è trapelato e che in qualche luogo verremo assaliti. Da qualche mese delle persone sospette si aggirano intorno a me e sorvegliano la mia barca. Si cercava certo di sapere dove io mi recavo, quando mi assentavo da Pamagit, per venire a ricevere i tuoi ordini. Noi non viaggeremo che di notte, colle dovute precauzioni e cercheremo di sfuggire gli agguati che ci verranno indubbiamente tesi lungo il Nilo. Il segreto ormai è stato tradito e tu, Figlio del Sole, corri il pericolo di venire arrestato prima di entrare in Menfi.»

      «Apriremo bene gli occhi,» disse Ounis.

      «E, se verremo assaliti, ci difenderemo,» aggiunse Mirinri. «Sono fidati questi uomini?»

      «Sono tutti etiopi valorosi, robusti e devoti a me,» rispose Ata.

      «Imbarchiamoci.»

      Attraversarono il pontile e salirono sulla barca. Essendo il vento contrario e la corrente invece favorevole, le due grandi vele vennero ammainate sul ponte, poi il piccolo legno fu lasciato libero, mentre gli etiopi, con lunghi remi, lo guidavano in mezzo ai banchi sabbiosi e alle masse di erbe acquatiche che ingombrano così di frequente quel fiume gigante.

      Ata, dopo essersi assicurato che il legno non correva, almeno pel momento, alcun pericolo, condusse Mirinri e Ounis a poppa, dove trovavasi una cameretta tappezzata di stuoie variopinte e colle pareti coperte di grandi scudi di pelle, per lo più angolari di sotto e rotondi verso la cima, con un foro nel mezzo, per poter osservare il nemico e d’un gran numero di armi di rame, di bronzo, di ferro e anche di legno, come spade, lance in forma di falci, mazze, ascie, pugnali di varie forme e parecchi archi colle relative faretre, piene di freccie colla punta di metallo…

      All’intorno vi erano pochi, però elegantissimi mobili, dalle linee dolci e per lo più oblique, non usando gli Egiziani la linea retta nelle loro costruzioni. Erano dei divanelli guarniti di cuscini ricamati e colle spalliere smaltate e piccole sedie che s’allargavano verso il fondo, dipinte in rosso ed abbellite da penne variopinte incollate lungo le gambe.

      Ata prese in un angolo una piccola anfora, dal collo assai lungo, coperta di smalti multicolori e delle tazze di vetro colorato, di squisita fattura, e versò della birra, dicendo:

      «Alla grandezza e alla gloria del futuro Faraone. Che Osiride ti protegga, Figlio del Sole.

      I tre egiziani vuotarono d’un fiato le tazze, poi Ata sollevò una tenda che copriva il fondo del salotto, aggiungendo:

      «Va’ a fare la tua toletta, signore. Un principe non può viaggiare con queste vesti e poi, tu devi figurare d’essere un grande personaggio etiope, così sventeremo meglio i sospetti che potrebbero nascere su di te. I negri che montano la barca basteranno colla loro presenza a farti credere tale. Ti aspettiamo sul ponte, signore. È necessario vegliare.

      Uscì dal salotto, seguito da Ounis e salì sul cassero, guardando per parecchi minuti, con estrema attenzione, le due rive del fiume, che in quel luogo erano lontane più d’un miglio l’una dall’altra.

      Il sole era già tramontato da più d’un quarto d’ora e le tenebre erano calate sul fiume gigante. In lontananza però un debole chiarore annunciava l’imminente comparsa dell’astro notturno.

      «Sei inquieto?» disse Ounis vedendo che Ata continuava a guardare.

      «È vero,» rispose l’egiziano.

      «Temi dunque d’essere stato seguito da qualcuno?»

      «Forse no; tuttavia ho osservato dei fatti strani che sarebbero sfuggiti ad altri meno osservatori di me.»

      «Quali?»


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