Le figlie dei faraoni. Emilio Salgari

Le figlie dei faraoni - Emilio Salgari


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cominciano ad impallidire e anche la coda della cometa va spegnendosi. Vieni, Figlio del Sole!»

      Il giovane asciugò la lama sulla criniera del leone, se la rimise lentamente nella fascia che gli stringeva le anche e raggiunse il sacerdote coll’indifferenza tranquilla d’un uomo che avesse compiuta una cosa di nessuna importanza.

      «Sangue freddo, forza ed audacia,» disse Ounis, la cui ammirazione non pareva che fosse ancora cessata. «Tu sei l’uomo del destino.»

      Mirinri sorrise senza rispondere.

      Gettò un ultimo sguardo sulla belva, che non aveva più alcun sussulto e che sembrava addormentata, alzò per un istante gli occhi verso la cometa, che cominciava a smorzarsi e seguì il sacerdote, ricadendo nei suoi pensieri.

      Non si udiva più alcun rumore fra le dune sabbiose. La voce formidabile del morente leone aveva allontanato jene e sciacalli, ed un profondo silenzio regnava sulla sterile landa,

      Camminarono così, senza parlare, per qualche mezz’ora ancora: poi Ounis ruppe pel primo quell’immensa calma.

      «La vedi? La piramide fatta costruire da tuo padre sorge laggiù.»

      Mirinri si scosse, alzò il capo, che fino allora aveva tenuto curvo sul petto e spinse lo sguardo dinanzi a sé.

      Due masse enormi si delineavano fra le dune, spiccando vivamente sull’orizzonte, che cominciava ad imbianchirsi sotto i primi riflessi dell’alba.

      «Le due statue di Memnone!» esclamò, sussultando.

      «Questa è l’ora.»

      Mirinri girò lo sguardo verso settentrione e scorse una massa ancora più enorme, tutta nera, giganteggiante fra le semioscurità e che s’innalzava in forma di piramide.

      «Il sepolcreto della mia dinastia,» disse.

      «Dove troveremo il fiore sacro d’Osiride. Affrettati, o giungeremo troppo tardi. La pietra suona solo quando nasce e tramonta il sole.

      CAPITOLO QUARTO. Il Figlio del Sole

      Le statue di Memnone godevano presso gli antichi egizi una venerazione grandissima, che non cessò nemmeno dopo, quando i romani, quei formidabili conquistatori del mondo allora noto, ebbero invase le rive del sacro Nilo, anzi ebbero anche essi una vera venerazione pel fatto, allora straordinario ed inesplicabile, che una di esse, sia allo spuntare del sole che al tramontare dell’astro, dava un suono.

      Gli antichi egizi affermavano che solo quando un Faraone s’accostava alle due statue, quella nota strana, che somigliava al crepitìo dello zolfo quando è riscaldato colla mano, ma infinitamente più forte, si faceva udire.

      Che realmente suonasse la pietra, nessuno lo mette in dubbio, quantunque oggi sia muta come qualunque altra pietra.

      Strabone fu il primo ad affermarlo, avendo udito quello strano crepitìo in compagnia d’Elio Gallo, che era governatore dell’Egitto, quantunque non potesse discernere se quella vibrazione partisse dal piedistallo o dalla statua. Giovenale, che meno d’un secolo dopo fu esiliato a Sienne, nell’alto corso del Nilo, pure lo udì e anche Plinio parlò di quel prodigio.

      Se agli Egiziani la cosa sembrava meravigliosa, si trattava invece d’un fatto semplicissimo che fu più tardi spiegato.

      La statua parlante, come la si chiamava, e che sembra rappresentasse un Faraone delle prime dinastie, in seguito ad un terremoto, era stata spezzata all’altezza del ventre, mentre la sua vicina aveva resistito alla formidabile scossa. Da quell’epoca cominciò a suonare.

      La natura del sasso, formato da materiali eterogenei, tenuti insieme da una pasta silicea durissima, era tale che sotto le repentine variazioni della temperatura crepitava. Ora quella variazione non accade che al sorgere del sole, dopo le notti freschissime di quel clima, e un po’ dopo il tramonto.

      Ed infatti, durante il giorno e la notte, la statua non faceva udire alcun suono.

      Quando Settimio Severo, forse per superstizione o per onorare Memnone, figlio dell’aurora, secondo le antiche leggende egiziane, fece restaurare il colosso con cinque enormi massi di marmo di grès, che si vedono tuttora, perché quelle due statue hanno resistito, al pari delle poche piramidi, alle ingiurie del tempo, la voce cessò d’un tratto. Quei massi furono una sordina: la vibrazione fu inceppata e Memnone, con grande dispiacere degli egizi, non parlò più: d’altronde i Faraoni erano ormai scomparsi e non erano più là per imporle di farsi udire.

      Ounis e Mirinri, non scorgendo nessuno nei dintorni dei due colossi, s’avvicinarono rapidamente, cominciando il cielo a prendere, verso levante, una leggera tinta rossa che indicava l’imminente sorgere del sole.

      Quelle due statue, che erano quattro o cinque volte più alte d’un elefante, rappresentavano due uomini seduti sulle ginocchia ed erano formate di massi enormi, di forma quadrata, saldamente cementati fra di loro.

      Sul capo avevano una specie di fichu triangolare, che cadeva lungo i lati della faccia, allargandosi al di sopra delle spalle ed avevano sotto il mento quelle strane barbe, formate da una specie di dado, più stretto in cima e più largo sotto, che si osserva in tutti gli antichi monumenti egiziani.

      Il basamento, che era di proporzioni enormi e tanto alto che Mirinri non vi poteva giungere nemmeno allungando le mani, era tutto coperto di lettere e adorno d’ibis, gli uccelli sacri degli antichi egizi ed emblema dei Faraoni delle prime dinastie.

      Sulla statua di destra si scorgeva distintamente la spaccatura prodotta dalla scossa del terremoto, allargantesi a circa metà del ventre.

      Mirinri si era arrestato, guardando con visibile emozione i due colossi. Se egli era veramente un Faraone, il suono doveva udirsi; se rimaneva muto quale delusione!

      Guardò con un po’ d’ansietà Ounis e lo vide tranquillo, come un uomo sicuro del fatto suo. Quella calma lo rassicurò.

      «Vieni,» disse il sacerdote, dopo aver guardato il cielo. «Questo è il momento.»

      Girarono intorno alla statua che era offesa e trovata una gradinata salirono sul piedestallo mettendosi fra le gambe che il colosso teneva aperte. Era quello il punto migliore per udite il suono.

      «Parlerà il figlio dell’aurora?» chiese Mirinri che era diventato pallido e che pareva nervosissimo.

      «Sì, perché tu sei il figlio di Teti,» rispose il sacerdote.

      «E se ti avessero ingannato?»

      Un sorriso comparve sulle labbra d’Ounis.

      «Ascolta,» disse poi. «Dopo mi dirai se tu sei o no un Faraone.»

      Il sole s’alzava in quel momento radioso, sfolgorando sui due colossi i suoi raggi, che appena sorti erano già diventati ardenti.

      «Ascolta! Ascolta!» ripetè Ounis.

      Mirinri, curvo verso la massa della statua, tendeva gli orecchi. Il cuore, che dinanzi al leone non si era alterato nemmeno un istante, ora gli batteva forte come quando aveva stretta fra le braccia la fanciulla che aveva strappato al coccodrillo, la prima donna che aveva veduto da quando il sacerdote l’aveva portato nel deserto.

      Il sole s’alzava rapido, allungando i suoi raggi sulla sconfinata pianura, ma la statua rimaneva muta. Anche Ounis aveva aggrottata la fronte.

      Ad un tratto si fece udire un leggero crepitìo, che andò aumentando d’intensità, poi una nota limpida, un do echeggiò.

      Un grido era sfuggito dalle labbra del giovane.

      Si era alzato rapidamente, cogli occhi accesi, il viso trasfigurato da una gioia inesprimibile. Guardò il sole e gridò con voce tuonante:

      «Sì, io discendo da te, Osiride, sono un Faraone! L’Egitto è mio!»

      Ounis sorrideva, lieto di quell’improvviso scatto d’entusiasmo. Anche egli sembrava profondamente commosso.

      «Ounis, amico mio, alla piramide!» disse poscia il giovane, con esaltazione. «Dammi l’ultima prova che io sono il figlio di Teti, che il mio corpo è divino ed io andrò a uccidere, con questo istesso ferro che spense il re dei deserti, l’usurpatore.»

      «Così


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