Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi


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Mi pare avere intronate le orecchie dall’orribile profferta dei figliuoli del conte Ugolino:

      «… Tu le vestisti

      Queste misere membra e tu le spoglia

      Guai! anco a cui tra loro non doma perfino una aurora boreale d’intelletto italiano! Guai! anco a cui tra loro mostra che il sangue gli batte il cuore meno gelido, meno monotono della goccia che casca giù dalla volta della grotta, che in procinto di essere messo al bando della Chiesa moderata per ottenere perdono bisogna, che si presenti con la corda al collo, co’ piedi, col capo, coll’anima nella neve. – Signore, liberaci da questi lupercali di vergogna e d’infamia!

      Pertanto fu ragione, se l’amico nostro non si reputava soddisfatto, e chiese così la Sardegna per finocchio dopo il pasto; ma essendosi gli arruffapopoli inalberati sul serio, i castrapopoli non gliene poterono fare dono. La Sardegna avrebbe somministrato stabile fondamento di preponderanza alla Francia nel mediterraneo, e poichè per questo lato non le riuscì spuntarla, ecco che torna per via obliqua all’assalto, e mediante il trattato di navigazione a se accerta facoltà di crescere, noi assicura a perpetua rachitide. La trista setta, che ha tolto per compito di nabissare la Italia opponeva lo stato della navigazione nostra floridissimo nonostante la concorrenza francese, e male argomentava, però che lo appunto si miri a fare in modo che cotesto stato non già floridissimo, ma comportabile cessi; nè da per tutta la Italia accadde ad una maniera, bensì nella Liguria dove la inopia di terra spinge alle industrie marittime. Fu domandato s’instituisse una inchiesta di gente perita affinchè in faccenda dove ne va posta sì grossa si procedesse con piena conoscenza di causa, e secondo il solito dispettosamente la respinsero, e sì che dovevano conoscere a prova quanto male avesse approdato al paese cotesto loro arrogante perfidiare. – Come riuscì profittevole l’aumento del 10 per cento per le ferrovie? Nè valsero a dissuaderli le persuasioni di uomini espertissimi, ed a loro devoti; come neppure la sconcia contradizione in che cascavano, avendo nella stessa sessione proposta la legge pel menomato porto delle lettere: qui si contava sopra, maggiore ripresa sul rinvilio, là speravasi il medesimo resultamento dal caro: peggio di tutte la legge sul bollo, e sul registro: fioccavano i moniti; sbracciavansi a dare ad intendere come certe tasse, che sta in potere tuo diminuire se crescano soverchiamente, trovi modo a ridurle senza tuo pregiudizio: valga per esempio questo: dove tu renda grave il diritto di registro sopra il trapasso di proprietà avendo a comperare un podere del valore di tremila scudi, tu d’accordo col venditore porrai sul pubblico strumento tanto prezzo quanto basti a coprirti dall’accusa della lesione, e basteranno i mille e cinquecento scudi, gli altri millecinquecento tu passerai a mano al venditore mercè ricevuta privata; donde avviene, che se prima il registro costava tre per cento, veruno pensando a frodarlo, tu riscotevi sul contratto la gabella di novanta scudi, mentre adesso, che l’hai cresciuto a cinque per cento tu non ne cavi più di settantacinque; vero è però che il legislatore mascagno ha previsto il tiro, e dove il Percettore trovi alterato il prezzo a danno del fisco cresce a suo modo e manda la gente al tribunale; di qui odio contro il Percettore, querele nei tribunali, liti che si possono vincere come perdere, aperta a due imposte la porta agli arbitrii, e quello, ch’è peggio, se a qualche misero toccò la sventura di avere ad alienare il suo a prezzo vile per soprassoma dovrà pagare la tassa come se glielo avessero pagato il giusto: orribile legge! di fatti cagione d’inestimabili querimonie! ella, come si presagiva, non approdò allo erario secondo le ingorde voglie; e chi la fece, dopo aver promesso riformarla, adesso si vanta aver fitto cotesto cavicchio nella Italia. – Ma che ci sta a fare il cervello dentro cotesti benedetti crani? Se ce lo avessero messi come un cencio sudicio nella conca del bucato a questa ora avrebbe ad essere lavato e asciutto al sole. Niente valse; che cavillando in ischiuma di parole inani, ecco a colpi di sofisma la setta ha conficcato il secondo chiodo alla Italia; il primo fu il trattato di Nizza, e di Savoia, il secondo è il trattato di navigazione; aspettate il terzo, e sarà messa in croce la Italia; ah! se mi si domandasse se più debbansi aborrire o tedeschi o moderati in coscienza penserei dovere rispondere, che voglionsi odiare con odio pari ambedue, benchè maggiore cagione la porgano i moderati: di vero quelli nemici sono, e si arrabattano a mantenersi serva una terra conquistata, mentre questi poichè la bindolarono a cui l’aveva col proprio sangue redenta anfanano adesso a riporla in servitù. Giusto giudicio cada sopra il vostro sangue, talchè i vostri successori ne abbiano spavento.

      Sovvenuti da cotanto amico si dice, che noi aderimmo al Congresso: quanto a me non ci credo; dacchè è chiaro come noi non possiamo, che scapitarci. I Sovrani, che ci riconobbero diranno: voi ci deste ad intendere, che il metallo popolano urlava infocato nella fornace, le volte ne tremavano, screpolavansi le pareti; se si commetteva a voi aprirgli la via voi lo avreste condotto a fondere una corona; all’opposto se stiantava da se irrompeva a gettare un berretto; in queste angustie io vi ho concesso fondere una corona: ora poi vediamo a prova, che la faccenda cammina altramente; dura la guerra ma no per la libertà, bensì per mantenere fermo un trono stabilito da Dio, e col consentimento nostro raffermato: così essendo ci piace la corona del Borbone come quella, che conosciamo fabbricata di metallo ugualissimo al nostro, e poi ci garbano meglio due corone che una, perchè quanti meno siamo a comandare tanto meglio ci torna, ed una contrapponendo all’altra rendiamo inani ambedue: la regia potestà l’è una tal cetra dove come più ci hanno corde peggiore suono manda. Poco preme a noi del Papa capo dei cattolici, moltissimo come capo di quella potestà spirituale, che interzandosi con la nostra ne fa una corda da reggere tutto il genere umano; non intendiamo, che la Italia si componga intera, anzi ripigli ognuno le sue spoglie, e torni a casa. Non ci opponete i voti dei popoli: con noi siffatti garbugli non giovano a scarrucolarci: ad ogni modo frego e da capo: fuori tutti da Napoli, fuori dalla Toscana, e dalla Emilia, e liberi allora da timore, e da lusinghe i popoli palesino la propria volontà.

      In tali strette a qual santo vi voterete voi altri? Al vostro amico di Francia? Dov’egli non abbia composto i fatti suoi, fingerà di sostenervi per avvantaggiarsi; se gli avrà assettati vi rinnegherà anco fuori del pretorio, e senza, che lo abbia ravvisato la serva. Certo per voi non si rimarrà su la corda; considerate il tiro, che fece agl’Inglesi nella guerra di Crimea, e credete ch’egli voglia pigliarsi soggezione di voi? O non capite, ch’egli tenne ad arte fin qui spezzata la Italia come il mercante va al mercato con la moneta spicciola in tasca per aggiustare il prezzo della derrata?

      Oggimai però torna vano spendere parole intorno a questo argomento, che il Congresso, mancata la Inghilterra, non si può fare; la vescica di Francia cadde sgonfiata al penetrare della punta di un ago inglese. Fin qui la fortuna arrise al Napoleonide, e mentre dura il vento prospero ogni uomo par pilota; adesso, che si mette alla burrasca gli spropositi fioccano, e veramente è tale questo della proposta del Congresso, dacchè avendo il fino che già accennai, bisognava scandagliare prima il terreno per non cascare dentro la fitta: ora poi fu mandato sossopra per ragioni così agevolmente pratiche, così ovviamente persuasive, che bene si acquista fama di leggerino chi prima lo promosse: donde noi giudichiamo o che non ebbe mai senno, o lo ha perduto chi si avventura a mettere in repentaglio la reputazione di prudente per cosa dove il civanzo è incerto, la perdita sicura; e comecchè ai Francesi non manchino spiriti vivacissimi, che anzi li possiedono in copia, vie più mi confermo nella opinione, che di Stato essi non intendano niente; e se questo ebbe animo di dire il Macchiavello in faccia al cardinale di Amboise ministro di Luigi XII non farà caso, che lo dica io qui dove veruno Francese ci sente.

      Smorzato il Congresso sottentra un’altra sequela di considerazioni piene di ambagi; e tu odi dintorno un domandare affannoso: «avremo la guerra?»

      Gli oracoli tacquero, affermano gli scrittori cristiani, dopo la venuta di Gesù Cristo, i Profeti non costumano più, o li bruciano come il Savonarola, o li buttano nel Tevere come Brandano; degli Astrologhi non rimangono neppure le ceneri: a speculare il futuro non ci avanza altro telescopio, che l’intelletto il quale quando non ha le lenti rotte quasi sempre se le trova appannate. A Torino ci hanno vecchi repubblicani con un paio di occhiali di dodicimila franchi all’anno sul naso adesso vedono tutto monarchico, ed anco assoluto.

      Noi pertanto con lo intelletto nostro ragioniamo così. Lo Imperatore di Francia guerra sembra non ne abbia a volere; suo fine prima di giungere al regno fu arrivarci, arrivato mantenercisi; magari! se starebbe quieto ad esclamare: Deus nobis hæc otia fecit; ma nè Dio si pigliò cura di lui, nè gli largiva ozi; i giorni suoi afferrò


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