Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi


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proprio rigidamente, senza nè pietà nè pudore imperciocchè abbia sempre costumato così; di vero le faccende di questo mondo non si giudicano per via di fisime, bensì con la notizia dei casi, la speculazione delle conseguenze, dei costumi, e della indole dei popoli co’ quali abbiamo a trattare; e rinnuovo qui certa mia querimonia che non andrà del continuo perduta; la quale è, qualunque professione, o vogli mestiere per umile, che sia desidera tirocinio; se ne assolve, e ne assolvono colui che rizza su cattedra di politica, tra le difficili scienze umane difficilissima; conciossiachè a molto sapere delle cose accadute esiga accompagnata cognizione precisa delle cose, e delle persone presenti; nè tanto bastando voglia altresì un certo divinamento dell’avvenire. Ora, se avessero bene considerato la parte della storia di Francia, che spetta a noi, conoscerebbero a prova com’ella sempre più anco di nocerci ci straziasse: mettiamo in disparte la storia antica come quella, che poco approda alle contingenze nostre: incomincisi pure da Carlo VIII; ei si precipita giù dall’alpi a guisa di vento, che va innanzi turbinoso, buttando all’aria stati, e popoli come polvere di su la via; guerreggia senza fine, negozia senza fede, e dopo avere lusingato tutti, tutti tradisce; crudele nella facile vittoria, si mostra animoso nella fuga, e si lascia dietro a testimoni del suo passaggio soldati ladri, modi di guerra efferati, il costume di trangugiarsi prima di venire a battaglia l’oro rapito, ed il troppo più truce di cercarlo dai vincitori nelle viscere palpitanti dei vivi; all’ultimo la infermità vergognosa che quasi maledizione lanciata da lontano attinge nella sorgente della vita i nostri più tardi nipoti. – Luigi XII Re mercante vende libertà, e tirannide, cresce esca alle discordie, ed altre ne suscita; negozia come le Parche filano, per tagliare mortalmente ad ora ad ora il filato; il Regno di Napoli si spartisce con Ferdinando il Cattolico a mo’ di fanciullo che si divida una mela col compagno arrapinato; semina la Italia di ossa italiane, ma altresì di francesi. Quale amico si fosse costui sel seppero i Fiorentini, messi quasi olive nel torchio con modi da disgradarne ogni matricolato usuraio per ispremere loro di sotto pecunia; e con parole, non come adesso sanno adoperarsi pompose di amore per il genere umano tutto quanto senza pure pretermettere un cosacco, e non dimanco a volta a volta acerbe o benigne ora altalenava per Pisa libera, ed ora per Firenze padrona; risucchiato poi l’osso lasciò Pisa ai Fiorentini perchè se lo rodano. Francesco I dei peccati mortali superò i dieci non che i sette; materia affatto agitata principalmente dalla lussuria, dall’ira, e dalla superbia: anch’egli empiè la terra di morti: massime la Italia contrastando senza concetto regio all’emulo Carlo imperiale concetto per la propria immanità condannato a screpolarglisi nelle mani, ed era la conquista del mondo, o di quanto più mondo si potesse; poi rifinito patteggia la pace tradendo i collegati suoi. Qui si manifesta non meno trista, ma più aperta che altrove la perfidia di Francia, imperciocchè da un lato si aizza vano i Fiorentini, e gli altri stati italiani a intorarsi nella guerra contro Cesare, e a chiudere gli orecchi ad ogni proposta d’accordo, e ciò perchè i negoziatori imperiali non salissero in baldanza nelle trattative di pace a Cambraio facendola alla Francia pagare caro.

      Confronta e vedi se le arti di allora uguali a quelle, che la Francia volle usare poi. Baldassarre Carduccio oratore fiorentino raccomanda al Re Francesco la sua povera Patria con queste parole: «Sire, la Maestà vostra tante volte mi ha affermato e ripetuto le medesime cose, che se io non veggo la osservanza di quelle, non che io creda più a parola di Re dubiterei si avesse a credere a Dio.» A cui il Re di Francia rispose: «Voi avreste mille ragioni perchè io ve l’ho promesso, e con l’effetto lo manterrò.» E mosso dalla medesima passione il buon Carduccio mentre faceva uffizio pari col Gran maestro udiva dirsi: «Ambasciatore, se voi trovate mai, che questa Maestà faccia conclusione alcuna, che voi non siate in precipuo luogo nominati e compresi, dite, ch’io non sia uomo di onore, anzi ch’io sia un traditore»; e mentre queste cose così solenni dal Re, e dal suo ministro affermavansi essi avevano bruttamente, come in quei tempi fu detto, e i posteri ratificarono, traditi e venduti i collegati, nè Carlo V dopo avere condotto i Francesi al passo iniquo volle lasciarsi scappare di mano la occasione di trafiggerli; imperciocchè sollecito a procurare agli amici suoi il benefizio della pace, mentre domanda il mandato all’oratore di Ferrara esce fuori col detto amaro: «io vo’ avere risguardo ai miei collegati, e non fare come fece il Cristianissimo.»

      Nonostante questo allora, come adesso (sebbene con meno largo strazio della coscienza umana per difetto di Giornali) affermavasi in Francia i collegati essere rimasti comprasi nella lega, e il Re stesso pregava, che così si propalasse per avere agio di andarsene prima che le querimonie incominciassero; le quali scoppiando poi violentissime, mostrarono la indegna remunerazione alla lunga osservanza, e ai danni patiti in pro della Francia; avere per ben quindici anni tenuto i Fiorentini, a lei devotissimi, servi, senza avere detto o fatto cosa che valesse per la liberazione di loro; alle quali dolorose rampogne mutato, volto il Gran maestro rispose: «O che volevate voi, che per piacere vostro rimanesse impedita la liberazione dei figli dei re rimasti statichi nelle mani dello Imperatore?» E poi che il Carducci lo rimbeccava dicendo: «Bene sta, ma la libertà nostra, e il nostro sangue dopo le promissioni vostre non avevano a servire di prezzo come avete fatto, avendo noi venduto, anzi dato noi tutti in preda al nemico per loro.» Il Gran maestro voltategli le spalle lo saldò. Donde gli Scrittori dei tempi cavarono due considerazioni generali, una di etica, e l’altra di politica; la prima fu che l’uomo savio non deve abbandonarsi in balia alle promesse, alle leghe ed ai giuramenti degli uomini; e questa parmi ripetizione della sentenza Attribuita niente meno, che allo Spirito Santo: «maledetto l’uomo, che confida nell’uomo:» la quale, nonostante la reverenza che professo grandissima allo Spirito Santo, per me giudico balestrata là in un momento di stizza; la considerazione politica generale è quest’altra, che non merita uscire di servitù quel popolo, che si raffida riacquistare la libertà con altro braccio, che col proprio; una terza particolare ce la metto io dichiarando, che consultata la Storia senza passione di odio o di amore non sai se la Francia sia riuscita più molesta alla Italia amica, o nemica. Alla casa di Savoia portarono via i Francesi quasi tutto l’avito retaggio; Nizza fedele asprissimamente combatterono con le armi proprie congiunte a quelle dei Turchi. Le Storie della monarchia piemontese dalle più antiche fino alla recentissima del Ricotti ti mostrano le perpetue ingiurie recate a lei dalla Francia, e il racconto degli strazi, che Carlo di Savoia ebbe a patire da Enrico IV dettato dal cardinale Bentivoglio, empiono l’animo dei leggitori di tristezza, e di rabbia. Della prima repubblica di Francia tu sai; ci rubò fino ai chiodi del Vaticano, e parte d’Italia, la Venezia, prezzo di pace necessaria, almeno così afferma nelle sue memorie Napoleone I difendendosi del tradimento di Campoformio; lo Impero pretese plasticarci francesi, ed altra volta io ammonii gl’Italiani: badate! porgete mente al concetto di Napoleone I quale si svela intero nella sua corrispondenza col fratello Giuseppe Re di Napoli pubblicata per cura dello inclito suo nipote Napoleone III; costui persuadeva Giuseppe a trovare modo di torre la sostanza ai baroni, per renderla poi a titolo di dote alle figliuole a patto si maritassero con soldati francesi, i quali arebbono dovuto comporre la nuova baronìa di Napoli, sempre che si obbligassero a fermarsi per sei mesi dell’anno a Parigi. Appartiene a lui la parola, la quale se avesse voluto tradurre in effetto sarebbe stata seme di guerre senza fine, vo’ dire: «il mediterraneo ha da diventare lago francese.» La Francia di Luigi Filippo aizzava i popoli alle rivoluzioni, e poi se li metteva dinanzi a mo’ che il Buonarroti costumò sospendere le balle di lana intorno al campanile di Samminiato a fine di ammortire la percossa delle bombarde. Se si trattava di beduini, bandivasi la Francia ricca abbastanza per pagare la sua gloria; se di sovvenire la Italia, e la Polonia l’oro e il sangue francesi avere a bastare per la Francia; e se la Polonia sdrucciolava nel sangue si annunziava il caso dal Sebastiani nel truculento modo, che la Provvidenza gli fece provare pari nella sua famiglia. – Del secondo impero non parlo, non mica perchè a quello che largamente fu addotto non si possa arrogere troppo più, ma perchè la copia partorirebbe a un punto fastidio e sazietà.

      Tale avvisando, so come altri, nella sfacciata petulanza che oggi tiene il campo, non mancherà riprendermi come o perniciosamente sconsigliato, o mosso da smania di screditare il governo, o di parzialità per la Inghilterra: risponderemo ora all’ultima rampogna, le altre confutammo in prevenzione, o ribatteremo a suo tempo dopo: la Patria vuolsi amare, gli stranieri se in casa di riffa odiare con le viscere dell’anima, e qualunque essi sieno, a casa loro rispettare, e proseguire con ogni maniera di buoni uffici, come uomini fratelli, che procedano di conserva al miglioramento scambievole. Gl’inglesi


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