Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi


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a randa, leva a cielo la giustizia e il diritto per nabissare l›una e l›altro a mo› dei saltatori, che si tirano indietro e pigliano la rincorsa per isfondare i cerchi: i diritti altrui dissimula, gli spogliati oltraggia, e sovente ti richiama al pensiero quel Fimbria, di cui narra Valerio Massimo, che ai funerali di Caio Mario investì Scevola ferendolo malamente nel volto, e poichè costui si salvava fuggendo, Fimbria imbestiato gridava volerlo accusare al popolo; di che taluno maravigliando lo interrogava, che mai potesse apporre a Scevola, e Fimbria rispondeva: «– non avermi lasciato ficcare tanto il mio stile nel suo corpo da poterlo uccidere.»

      Lasciamo coteste sazievoli e vulgari compilazioni monumenti di colpa, di piaggeria, di astio, e di paura a bandire un diritto appo il quale conquiste, trattati, prescrizioni, e tutto, viene meno; il diritto del popolo, che vivendo ara, difende, e ricupera la terra ove è nato, e morendo cresce con le sue ossa la terra dove giace sepolto. Lasciamole, dico, e condiderate sola la parte compilata dal deputato Castagnola copiosa di fatti quanto sobria di parole, e vedrete quale l›opera nefaria di Roma, e quale scellerata miscela per lei si faccia di religione, e di omicidii; mirabile a dirsi! Un Romano di Gioia, il quale per errore di mente si dà ad intendere essere campione della fede e difensore del trono, conosciuti tardi i compagni suoi, così lasciava scritto nei suoi ricordi: «siccome in questi era unicamente il pensiero di rubare.... cominciarono ad agitarsi contro di me dicendo: – noi siamo usciti in campagna e siamo chiamati ladri, dunque dobbiamo rubare, e se il nostro capo non fa come noi, mala morte farà, oppure rimarrà solo.» E tuttavia cotesti compagni suoi pigliavano nome di Giurati alla fede cattolica; con sacramento obbligavansi a difendere mediante la effusione di sangue Dio, il sommo Pontefice Pio IX, Francesco II re delle due Sicilie, ed a combattere i ribelli della Santa Chiesa. Pasquale Forgione presso a morire, presago che i bersaglieri i quali gli stavano dinanzi fossero ordinati per metterlo a morte, disposto a confermare le sue dichiarazioni al confessore protesta combattere per la fede. Se gli obiettano la fede cristiana aborrire dalle stragi, dagl’incendii, dalle immanità di cui egli si è contaminata l’anima, egli risponde: «di questo non sapere niente, egli combattere per la fede, lui essere, benedetto dal Papa e possedere documenti chiari, mandatigli da Roma; chè chi combatte per la santa causa del Papa, e del Re Francesco non fa peccato.» – Nè costui si scuote punto allo annunzio della morte imminente, e nè al giusto terrore, che il giudice tenta incutergli con le parole: – «ma come di tante scelleraggini hai tu potuto tenere per testimone, e, nel tuo pravo concetto, complice la Madre di Dio portando appeso al petto questo laido abitino con la sua effigie del Carmine? Di peggio non potrieno fare li stessi demoni, tu hai deriso la religione, e Dio.» – Senza commoversi il Forgione persiste: «io, ed i miei compagni abbiamo la Madonna nostra protettrice, e se aveva la patente con la benedizione non sarei stato certamente tradito» Il Borjès, anch’egli, maledisse il momento in cui abbindolato, mentre crede trovarsi preposto a partigiani agitati dallo spirito della fede si mira attorno una collezione di rappresentanti di tutte le galere di Europa; lo stesso Tristany ebbe a mettere le mani addosso al Chiavone, e farlo fucilare pei suoi delitti: affermano che ciò cocesse al re Francesco, ed è credibile la fama imperciocchè vediamo licenziato il Tristany; e forse può anco darsi che costui ammazzasse il compagno meno per odio delle scelleratezze commesse, che per gara di comando: con gente siffatta s›indovina sempre quando si pensa al peggio.

      E› fu avvertito come Roma noccia forse assai più con i sobillamenti morali, che per forza di arme, e questo non sembra possa negarsi; nè danno siffatto muove solo dai preti, ma dal Borbone altresì, e dai Francesi. Quanto alle armi, agli ordinamenti, ed ai fini del Borbone, pari a quelli del Prete, e non occorre farne altra parola, senonchè meritano considerazione due cose: che il Pontefice come signore temporale non dovrebbe prendersi la scesa di capo pei negozi di Napoli; e s›ei lo fa ci è indotto dal pensiero di rattrappare la terra pel cammino del suo paradiso, come a cui ci vuol credere dà ad intendere, che possa espugnarsi il cielo rimettendo nelle sue mani il diritto del popolo sopra la terra; se sieno fratelli in Cristo può dubitarsi, ma fratelli nella tirannide si sentono e sono: l›altra, che Francesco Borbone stanziando a Roma si è posto in luogo strategico unico al mondo, e dico unico, imperciocchè colà non pure si trovi difeso da amici potentissimi, ma gli stessi nemici confessino non volerlo o non poterlo combattere; però con sicurezza intera, a bello agio, senza pericolo di un pranzo, o di un sonno turbato, egli ordina, insidia, trama, e mantiene la guerra civile: non valeva certo il pregio superare Gaeta; in ben altra fortezza si rinchiuse il Borbone; almeno Gaeta non ci fu impedita, o poco dagli amici nostri; di Roma adesso, così ci persuadono gli amici, noi dobbiamo rispettare le benedizioni apostoliche, e gli stiletti.

      Ora ecco quanto allegano Francesco di Borbone, e i suoi fazionari in prò suo e di loro. – Noi ripigliamo il nostro; nostro il regno, nostri i popoli; ci vengono per baratti, per trattati, in virtù di carte sottoscritte, bollate, in buona forma, e guarentite; ond›è che ce ne cacciaste fuori? O piuttosto perchè vituperando il rapitore vi avvalete della rapina? Voi barattate le carte; gli spogliati siamo noi, e voi c›infamate per ladri se per ogni via c›industriamo riagguantare il nostro; sicuro! ai nemici si ha da nocere meno, che fie possibile, ma le sono sentenze da starsi nei libri del Grozio, e del Puffendorffio; un dì queste magnifiche cose non sapevano i principi, e non facevano; oggi le sanno ma non le fanno; ecco il divario che passa tra il vecchio e il nuovo.

      A me Borbone che apponete voi? Il diritto del popolo? Ma voi tremate a verga quando obbligati mettete fuori questo diritto; le parole escono scorticate dai denti stretti, e su le labbra vi levano le gallozzole come se fossero corrosive: voi amate, e voi fate capitale del popolo come lo amo, e lo avrei curato io; un›ora libero ma per darsi il padrone, e poi schiavo per omnia saecula saeculorum amen. Ma via.. di che popolo mi contate voi? Certo non erano popolo i miei ministri corrotti per tradirmi, nè popolo i generali comprati per vendermi; e dalle mani di questi non da altri si agognavano consegnate le mie spoglie, forse il mio sangue; e poichè si voleva mutare soma, non servitù, procuravasi con affannosa sollecitudine, ch’egli, il popolo, non se ne accorgesse, e nè manco levasse il muso di su la consueta paglia che pasceva. Certo, costoro cupidi di guadagnare, non ci era pericolo si spendolassero per tema di perdere, e tuttavia ebbero premii non solo dei traditori arrisicati, ma sì dei guerrieri virtuosi; i miei di Spagna pagarono Maroto; (fu pagato anco Giuda) poi lo cancellarono dalla memoria degli spagnuoli.

      O per avventura presumerete chiamare popolo quei mille uccelli di rapina che si avventarono alla sprovvista sul mio regno, e lo misero sossopra più per istupore, che per terrore della loro audacia? Udite: o voi li sovveniste, o no. Se li sovveniste nella opera da corsale, io vi chiamerò complici, io, insidiatori, io, pirati regi; e contro cui? Contro un re fanciullo; inesperto di regno, sottomesso ad odio sterminato per le colpe dei suoi maggiori; mallevadore innocente, e sventurato. Forse mi ostinava io a seguire le orme paterne? Non elargiva volenteroso quelle larghezze del vivere civile che mi si chiedevano? Negai cosa alcuna?

      Io distendeva la mano supplice perchè sostenessero i miei passi, e verso cui la sollevava? Ad amico, ed a congiunto per vincoli strettissimi di sangue. No, voi non li sovveniste; ve ne siete vantati così per ispavalderia, o piuttosto per necessità di perfidiare, che a voi non conviene l’antico: sic vos non vobis mellificatis apes con quello che segue, e vale: le api ripongono il miele nei fiali, e i calabroni se lo mangiano. Non lo giurate, perchè tanto io vi terria spergiuri; ma, udite, caso mai voi foste complici, io vi cito a comparire al Congresso dei Rè che intima l’Agamennone francese e quivi vi accuserò di fellonia. – Ormai la Storia ha inciso nelle sue tavole, e con le vostre parole, che voi pregaste il capitano di cotesti avventurieri a non valicare lo stretto di Messina; voi spediste gente giurata a voi ed a lui cara, perchè gli attraversassero la via; voi commetteste alla favilla elettrica di bandire al mondo la vostra ruina se il Garibaldi prima dei vostri soldati toccasse la Cattolica: o non vi ricordate, che otteneste la pazienza altrui per la presa della Umbria, e delle Marche appunto con la paura della rivoluzione? Non vi profferiste voi, proprio voi, di sperdere con civile battaglia la rivoluzione? E pure ieri,…testè, uno di coloro che ora governano, dichiarò aperto al Parlamento ributtare con tutti i nervi da sè la rivoluzione, nè avere saputo mai, che in Italia si operassero rivoluzioni; il moto ultimo, che raccozzava insieme ventidue milioni d’Italiani aversi a definire così: «svoltatura della Italia in senso monarchico costituzionale»

      Bene stà; anco qui vi credo; ma allora perchè


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