Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi


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Cotesta fu la caccia al Falcone, gli levaste il cappello, lo avventaste contro il colombo, poi agitando il logoro per richiamarlo, gli riponeste i geti appollaiandolo sopra la stanga. – Perchè mai briganti quelli che in nome mio movono contro voi, e non briganti coloro che si gittarono contro me in nome vostro? Forse in virtù del plebiscito? Ma di plebiscito allora non si ragionava nè anco. Poteste, e sapeste risoluti troncare le gambe all’avventuriere in Aspromonte quando ei si spinse contro Roma, o come non poteste e non sapeste fermarlo quando calò su di me falco rapace per rapire a conto altrui? – Io era un libro bianco; dovevate aspettare prima di gittarmi sul fuoco a vedere che cosa ci avrei scritto: ecco, prima di peccare io mi trovo condannato; l’esilio amaro, il vituperio, forse la morte mi aspetta per colpe non mie. Chè se voi dite tradimento il combattere disperato dei miei, per me lo giudico magnanimo; ad ogni modo egli ebbe inizio dopo non prima la cacciata da casa mia. O che pretendete voi che i miei campioni battaglino alla vostra maniera per darvi agio di vincerli? Forse voi a mo’ dei cavalieri antichi rifuggite dagli agguati? Aborronsi da voi tranelli ed insidie? Ogni arme buona in guerra massime in questa slealissima dove le armi ministra il furore. Ah! voi m’infamate ladro, e ladri i miei; restituitemi il regno, e pagherò regolarmente le milizie così, ch’io le dannerò alle debite pene dove commettano la millesima parte di quello che pure fanno le vostre pagate e nudrite su le mie terre col mio. Certo, si capisce, che voi avreste a grado rinvenire pei boschi i miei fedeli morti d’inedia, o attriti dal digiuno in guisa da pigliarli come conigli in parco; grande invero e truculento il misfatto loro non volere finire di fame; hanno torto, ma da necessità costretti dove trovano arraffano: difettano i miei della vostra virtù, e pensano giustificarsi con la sentenza dei pubblicisti, che afferma nei supremi bisogni rivivere la pristina comunione delle cose. Quanto ad opere di sangue riardono dentro noi l’ira dei traditi e la rabbia degli spogliati; avventurosi i vostri i quali immuni da cosiffatte passioni possono procedere benignamente miti.... Voi non ammazzate a sangue freddo persona, non inferocite mai, non trucidate l’innocente invece del reo, udite sempre le discolpe, attendete le testimonianze altrui, i supplici esaudite, i traviati perdonate, all’altrui pianto piangete.

      Devo, io rendere conto al popolo delle colpe paterne? Ma, io figlio per piacere altrui non doveva mostrarmi snaturato: chi si raffida rinvenire ottimo re in pessimo figliuolo fa male i suoi conti. A me non istava maledirlo. Se il padre mio fu spergiuro, se nemico alla libertà, se crudele, se, cupido quanti principi furono nei tempi passati diversi da lui? E pure qual re di piccolo stato, come egli, seppe opporre porre animo alteramente sdegnoso contro Potentati, che sgomentavano allora, e sgomentano adesso col solo aggrondare del ciglio i minori regnanti? Se nella mente del re mio padre capiva il concetto di dominare la Italia certo è, che veruno al mondo se lo sarebbe reso mancipio.

      E voi al re del mio regno moveste mai rimprovero delle colpe paterne? Non osaste, e sta bene; ma perchè a me sì, e a lui no? Dunque non camminate nelle vie della giustizia; voi adoperate due pesi e due misure; ma troppo voi ardite di più, che mentre rovesciate contro la memoria del padre mio parole ardenti da disgradarne la lava del mio Vesuvio, voi rubereste i raggi al sole per circondarne la tomba del re Carlo Alberto; voi consumaste per celebrarlo ogni metafora panegirica, la favella nostra giace rifinita pel saccheggio degli aggettivi encomiatori sbraciati su la memoria di lui. La pietà e la modestia dovevano essere poste custodi a cotesto sepolcro: voi ci metteste la menzogna e la provocazione. Chi fosse il re Carlo Alberto io vergognerei desumerlo da gente vendereccia di cui la coscienza si acquista a un tanto la canna; guardimi Dio da tirare innanzi il giudizio di uomini stranieri, o a me devoti: mirate, io vi squaderno davanti agli, occhi tre testimonianze de scrittori piemontesi, tutti reputati uomini retti, comecchè zelatori di massime fra loro diverse, e ministri suoi; le quali scritture essi dettarono non pure mentr’egli viveva, ma altresì quando l’anima di cotesto re riparava sotto il manto del perdono di Dio, e di quello degli uomini: potendo più in taluno di loro l’amore del vero commecchè con certezza di tornare sgradito, per la piaggeria provvisioniera di tristo pane, e d’infamia. Prima il conte Santorre Santarosa morto per la libertà a Sfatteria: quel desso Santarosa, ad onorare la memoria del quale mercè povera lapide, ora il Piemonte tardamente pietosa va in volta a razzolare con pena pochi danari, il Piemonte, che dianzi si votava le tasche di rincorsa per erigere al morto conte di Cavour monumento regio: mirate qui vi narra come il principe di Carignano Carlo Alberto acconsentisse alla rivoluzione del Piemonte, la quale doveva accadere nel giorno otto marzo 1821; il dì innanzi, ecco correre una voce nefasta: Carlo Alberto avere disertato dalla bandiera; ed era vero; tuttavia ei rampogna i congiurati di poca fede sicchè tornano a deliberare il movimento, e nondimanco mentre Carlo Alberto assicurava i congiurati del suo consenso pienissimo spediva ordini, e disponeva le cose per modo da rendere impossibile qualunque atto a Torino esponendo a pericolo mortale il Santarosa ed il Collegno! e fu tiro cotesto, che a parere del Santarosa, potrebbe qualificarsi perfido, ma ch’egli, discreto, desidera piuttosto attribuire a naturale ambage della indole di lui. – Considerate attenti il libro del prode Santarosa: Carlo Alberto il giorno 13 marzo annunzia la costituzione dalle finestre del palazzo, il 14 la giura…, accorsi i Milanesi a profferirgli di buttare all’aria la Lombardia, gira nel manico, e si tira indietro, onde al conte Santorre tocca dire: «dov’era andata allora, o Principe, la smania antica di liberare la Italia dallo straniero? Donde in voi siffatto mutamento? Forse, l’ardire si destava in voi quando la occasione di adoperarlo era remota, e cagliava avvicinandosi?» Il rifiuto del re di ricevere Lisio, Santarosa, e Collegno si giudica come difetto di cuore a sostenere i liberi sguardi di tre animosi cittadini, mentre forse fin da quel punto gli stava fisso nella mente il pensiero di tradire la Patria. – Se in vece di Villamarina prepone al ministero della guerra il cavaliere Bussolino, sì il fa: «perchè con la scelta di uomo meritamente riputato lealissimo da tutto il partito costituzionale ei si lusinga celare meglio i disegni nefari.» E già la Costituzione era abbandonata dal suo capo spergiuro, quando interrogato dal ministro dello interno circa le voci sinistre, Carlo Alberto le ributta sdegnoso come contumelia plebea; poi dà la posta dell’ora pel giorno veniente al ministro dello interno e ad altro collega, per negoziare intorno alle faccende di stato; e nel fitto della notte si fugge conducendo seco le guardie del corpo, l’artiglieria leggera, i cavalleggeri di Savoia, e il reggimento Piemonte reale cavalleria; che se domandi (così sempre ragiona il conte Santarosa) per quale causa egli rifuggisse da mettere in esecuzione con le proprie mani il meditato tradimento, così bene ordito da lui, per me giudico, che a Carlo Alberto mancasse fino il coraggio di fare il male, coraggio del quale confesso che non difettava la buona anima del padre mio; all’opposto, egli ne aveva anco di avanzo. – Carlo Alberto invece, valicato il Ticino, andava in sembianza di profugo a gittarsi nelle braccia di un governatore austriaco, il quale lo accoglieva coll’oltraggio, che a me piglia rossore di rammentare.

      Della cattolica chiesa Carlo Alberto zelatore quanto mio padre; e più, però che egli sendo dotto in lettere la difendesse con la penna mentre a Ferdinando, buon’anima, mancò la possa non la voglia; e di ciò fa fede quel perfetto gentiluomo del conte Clemente Solaro della Margarita di cui il Memorandum in mezzo al diluvio dei libri satanici galleggerà, pari all’arca santa, fino alla consumazione dei secoli; di vero si ricava da lui, che Carlo Alberto dopo avere dettato un libro di riflessioni storiche, lo facesse stampare; non so poi per quale cagione ne ritirasse le copie, eccetto una sola, che mandò in dono al cardinale Lambruschini, il quale esaminatala a dovere, trovatala conforme al suo cuore, assai la commendò; Gregorio XVI a cui ne fu data parte ne faceva le stimate; e stette a un pelo di segnarlo sopra l’albo dei santi… ma poi se ne trattenne.

      Dal tratto che corre fra il 1821 e il 1847 io non rimoverò la tenda, che lo cuopre: la è pesa di sangue grommato, nè vo’ bruttarmene le mani, almanco senza profitto; e poi la reverenza regia mi preme come avrebbe importare altrui; non siamo tutti re? D’altronde ne vanno piene le storie dei tempi. Parliamo del 1847, che lo colse mentre, con altri nati in Arcadia si godeva ministro il buon Solaro; ora questi nel suo celebre Memorandum stampato proprio a Torino nel 1851 ci afferma essere stato il suo adorabile padrone tenace profondamente della regia potestà, ossequentissimo alla santa madre, la Chiesa cattolica, appassionato della indipendenza italiana, la quale (intendiamoci bene) a dire del conte ministro, dal suo adorato Signore ponevasi nello estendere quanto meglio per lui si potessero i proprii dominii: in omaggio al diritto divino, ed alla esaltazione della Chiesa protesse Don Carlos nella Spagna, la Duchessa di Berry in Francia, i Gesuiti da per tutto spendendoci attorno


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