Parvenze e sembianze. Albertazzi Adolfo

Parvenze e sembianze - Albertazzi Adolfo


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l'indomani fu per ordine del Cardinal Legato pubblicata una grida che proibiva l'andare in maschera “sotto pena di galera et altre pene„ e furono chiuse le porte della città, ad eccezione di quelle di Strada Maggiore e San Felice, per le quali tuttavia non era concesso d'uscire “senza bollettino, sotto pena della vita„29.

      Fabio Pepoli, dopo ventiquattr'ore di strazio, spirava lasciando il dovere di vendicarlo ai fratelli suoi Guido e Giampaolo. I quali pregarono anzi tutto il Granduca di Toscana d'intromettersi ad accertare se i Malvezzi avessero per caso avuto parte nell'assassinio del loro fratello: il Granduca indusse il Legato Ubaldini a raccogliere prove che i Malvezzi non erano colpevoli; poi egli e il cardinale, per amore di pace, fecero giurare a Giambattista e ad Aldobrandino Malvezzi “su l'onore di veri cavalieri„, e il giuramento porre in scrittura di notaio, che “non avevano dato consiglio aiuto e favore alcuno, né con assistenza né con qualsivoglia altro modo ad eseguire l'assassinio di Fabio Pepoli„, e che mai avrebbero porto “consiglio, favore et aiuto ai signori Barbazza„, né avrebbero mai offesi i Pepoli o “tentato d'offenderli né per sé né per mezzo d'altri„30. Ma non giurarono, furbi!, di non aver aiutati i loro parenti a fuggire. I Barbazza scampati alla forca rimasero molti anni alla corte piemontese: Astorre, il quale ebbe su l'anima parecchi delitti, fu condannato a morte in contumacia, ma ottenne poi grazia nel 1659, “in riguardo alla sua grave età„, pagando quattro mila scudi31; e la pace fra le famiglie dei Barbazza e dei Pepoli non fu conchiusa che morti Guido e Giampaolo Pepoli e solo per intromissione dei príncipi di Savoia e di Toscana.

      Quant'odio dall'amore di Bianca Bentivoglio!

      VI

      E quanto misero il retaggio di Bianca Cappello; retaggio di colpe, di sciagure e drammi foschi! Ancora un mistero: la contessa Barbazza nei sette anni che trascorsero fra la morte del Pepoli e la sua morte, quetò forse, per sconcia avidità dei sensi, ricordi e rimorsi in nuovi amori, finché la frenò e a poco a poco l'uccise il veleno propinatole dai congiunti, o piú tosto patí ella sette anni interi, da prima la cupa fantasia rinnovandole giorno a giorno lo strazio di quella scena – a un colpo d'archibugio l'uomo amato cadere sanguinante e dolorare e gemere tra una folla di maschere – e poi, di pari, consumandola giorno a giorno la corrosione lenta della tisi, se non del veleno e della vendetta maritale? – “Il 15 ottobre 1629 morí Bianca Bentivoglio Barbazza d'una lunghissima e penosissima infermità, che a poco a poco l'andò struggendo; e non fu chi non dubitasse che non le fosse stato dato il diamante a causa della corrispondenza col marchese Fabio Pepoli„32.

      Troppo lasso di tempo sembra che fosse tra l'offesa e il castigo; ma pure un fatto aggraverebbe sopra Andrea Barbazza il sospetto di uxoricidio: egli compose e pubblicò una canzone, una canzone di ventinove stanze, in morte di sua moglie33.

      Da sí vasto ocean d'amari affanni

      Ov'ondeggio caduto,

      Deh! chi recando aiuto

      Sia che mi tragga a riva? E chi consola

      Naufrago il cor tra le miserie e i danni?

      So ben che morte sola

      Può dar fine al martir, posa al cordoglio,

      Ma sol per piú morir, morir non voglio…

      E nel secentesimo di questi e di quest'altri versi sarebbe bastevole e facile prova di ipocrisia e di mal tentato inganno:

      Quando l'alma di lei che 'l Ciel mi diede

      Dal casto vel si sciolse

      E 'l Ciel se la ritolse,

      Privo restai de l'anima e del core,

      Orbo di gioie e d'aspre cure erede;

      Ond'è solo il dolore

      Che mi sostiene e serba il petto vivo,

      Benché de l'alma io sia vedovo e privo…

      Se non che seguono altri versi per cui converrebbe supporre nel cavaliere Barbazza una perversa sottigliezza a coprire il suo delitto. Egli lamenta in un punto:

      Vidi…

      … la beltà che tanto amai

      Farsi preda a maligno

      Umor, che di sanguigno

      Foco sparse il bel volto e del bel petto

      Tinse il candore, e chiuse agli occhi i rai

      In cui visse il diletto

      E col diletto Amor, ch'ha per fortuna

      D'aver la tomba ov'ebbe in pria la cuna…;

      No! Io sono docile alla commozione della poesia; io odio la malignità nella storia; io credo al diarista Galeati: “Il 29 ottobre 1629 (data certa) morí l'illustrissima signora contessa Bianca del conte Ulisse Bentivogli, di febbre etica„. E con pena sincera do fede a un povero marito che si duole, privo degli occhi languidi consolatori e preganti consolazione della sua moglie soave, cosí:

      Quegli occhi, dico, a me sí dolci e cari,

      Ch'ancor nel duol sepolti

      In me vidi rivolti.

      Quasi ad uopo maggior languidi e mesti

      Pietà chiedendo in muti accenti amari…

      Pietà! – gli aveva chiesto Bianca con i brividi del malore e del rimorso; ed Andrea le aveva perdonato, son certo, con gentile misericordia di poeta; né, lei seppellita, poté forse resistere a non piangere piú volte nella chiesa del Corpus Domini e a pregare spesso Santa Caterina de' Vigri, vicino al cui corpo incorrotto è la tomba dei Bentivoglio, che Iddio lo ricongiungesse alla pallida e tremula fiammella della sua Bianca.

      Canzone, imponi al canto, al pianto freno:

      Ben so ch'a me non lice

      La mia cara Euridice

      D'indi ritorre ove beata splende,

      Ch'ivi affanno non ha di duol terreno.

      Ma lieto amor l'accende

      Che 'n Dio la stringe e con devoto zelo

      Fa che m'inviti a rimirarla in Cielo.

      Affettuoso uomo fu Andrea Barbazza: tanto vero, che per il bene che egli volle alla sua nuora impudica, Settimia Mandoni, le male lingue asserirono ottenesse il senatorato ed altri uffici mercè i favori di lei34tanto vero, che a sessantasei anni s'accese di Silvia Boccaferri, la quale egli, rimasto vedovo quasi vent'anni di Bianca Bentivogli, sposò in Santo Stefano il 30 maggio del 1648.

      GREGORIO LETI SPIRITO SATIRICO

      I

      Non fu tutto merito e tutta colpa dello zio vicario se Gregorio di giovane scapestrato divenne uomo d'austeri costumi; d'incredulo cattolico fidente calvinista e di fanullone uno scrittore fecondissimo. Già nella fanciullezza e giovinezza prima troppo l'avevano fatto digiunare e dir pater nostere servir messe e baciar mani sporche di preti e di frati quelle due figure paurose del padre Merenda e di Don Grassi. Poiché da sua madre, Isabella Lampugnani, rimasta vedova di Geronimo Leti governatore d'Antea, era stato posto nel 1639 alla scuola de' gesuiti di Cosenza, ed egli, irrequieto scolaro e incomposto chiericuzzo, era cresciuto dai nove fino quasi ai vent'anni con l'oppressione e il fastidio addosso del Grassi per custode e del Merenda per precettore: tanta oppressione e tale fastidio che quando gli morí la madre e passò in Roma alla tutela dello zio don Augusto, “non poteva piú vedere né chiese né sacerdoti„35.

      Lo zio, il quale era un po' petulante, sí, ma in fondo un'ottima pasta d'uomo, e vagheggiava pe 'l nipote la fortuna medesima ch'egli aveva avuta nella prelatura, avvedendosene, con che sbigottimento s'imagini!, pensò dargli a maestro e guida di coscienza quello sciocco del suo


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<p>29</p>

Galeati, Diario, pag. 21.

<p>30</p>

Ghiselli, T. XXIV, luogo cit.

<p>31</p>

Galeati, Diario pag. 112.

<p>32</p>

Ghiselli, T. XXVI.

<p>33</p>

Canzone del Sig. Cav. Andrea Senatore Barbazza in morte della Contessa Bianca Bentivoglio defonta li 29 ottobre 1629: ms. nella Bibl. Com. di Bol. – A stampa: Bologna, 1631: in-4.

<p>34</p>

Guidicini, op. cit., pag. 52.

<p>35</p>

Gregorio Leti: Lettere sopra differenti materie (Amsterdam, 1700: in-8) T. I, 30. – Una volta per sempre: Moreri, Dizionario; Niceron, MémoiresT. II, pag. 359-379.