Il diavolo nell'ampolla. Albertazzi Adolfo

Il diavolo nell'ampolla - Albertazzi Adolfo


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infatti, non osò denunciarli neanche il giorno dopo.

      – Mio fratello – pensava – era una gazza; nascondeva tutto. Dove li avrà messi?

      – Dove li avrà messi? – si chiedevano a vicenda la vecchia e il figliuolo – . E se non si trovano?

      Consultavano trepidanti, l'una le amiche, l'altro gli amici.

      – Con sè non li ha presi – diceva Andrea.

      E l'Assunta:

      – In che rischio ci ha lasciati, se non ci avvia a trovarli!

      – Non ve ne mettete – rispondevano amiche e amici – . Male non fare e paura non avere! – Ma tra loro… Oh tra loro, strizzavan l'occhio e mormoravano: – Se li son presi; e fan bene a tenerseli!

      Per poco i più arditi non gliela gettavano in faccia: – Meglio li godiate voi che quel birichino!

      E quei poveri incolpati capirono che cosa volessero significare certe mosse di spalle, certe occhiate oblique, certi sorrisi sfuggenti, certe parole finte. L'Assunta piangeva e si premeva d'una mano il cuore; e Andrea scampanando, zappando e vangando ribatteva, quasi a persuadere in sè ogni incredulo: – Ladro io non sono mai stato! Ladro, io, non sarò mai!

      Nemmeno il cappellano, che era stato mandato per economo dalla Curia, súbito dopo il mortorio, li consolava. Non conoscendoli, sospettava, taceva.

      Ma più di tutto li sgomentava il silenzio di quell'altro, del fratello. Uscito dalla canonica all'entrare dell'economo, non si era più veduto lassù.

      … E due giorni dopo, all'ultimo dell'anno, che faceva un gran freddo, la chiesa era piena di gente. Aspettavano la messa. Quando uno udì, o credè d'udire uno scalpitìo e un suono di squadroni sbattuti; e susurrò: – I carabinieri!

      – I carabinieri! – susurrarono i vicini.

      – I carabinieri! – avvertirono di panca in panca.

      L'Assunta impallidì; gemè forte: – Signore! e Andrea, che per servir la messa accompagnava il prete dalla sagrestia, fu assalito da un tremito convulso. Intanto alcune donne si inginocchiarono alla balaustra per ricevere la Comunione.

      E il prete sale il gradino, depone il calice sull'altare, apre il tabernacolo, si volta a segnar nell'aria, con la mano, la croce: ricorda ad Andrea che deve recitare il Confiteor. Ed ecco; il prete si volta ancora, tende il braccio a trar fuori dal tabernacolo la pisside; ma… Che è? che non è? Un cartoccio. Cade sull'altare, si apre: una di qua, una di là, due cose lucide scappan via, in terra, sonando. Monete? Marenghi? Che è? che non è?

      – Miracolo! – esclama Andrea, più bianco in faccia che la sua cotta.

      E le donne che sorreggono l'Assunta esclamano:

      – Miracolo! Miracolo!

      E tutti, in punta di piedi, ansiosi:

      – Miracolo! Miracolo! I quattrini di don Fiorenzo!

      Ricuperato l'onore, l'Assunta e Andrea si rallegrarono come fossero essi gli eredi del curato.

      Solo, si sentivano in credito verso l'Americano appunto per quanto li aveva fatti soffrire; e quando poi egli tornò a prendere le cose dell'eredità, coraggiosamente gli dissero che da anni non avevano avuto nulla da don Fiorenzo. Domandare era lecito: la carità di un centinaio di franchi.

      Ma l'Americano li guatò stupito.

      – Oh non ne avete avuto abbastanza del miracolo?

      LA FORFECCHIA

      Gli uomini e le ragazze – cominciata la mietitura – prestavan opera fuori del fondo, e le donne erano andate tutte e tre al fiume, a risciacquare il bucato, perchè nel rio vicino mancava l'acqua. A guardia della stalla avrebbe dovuto rimanere il garzone; e a servire il vecchio, se lo chiamasse.

      Ed ivi, all'ombra del noce, il nonno ottantenne e la bambina di sei anni, l'uno adagiato sulla scranna a bracciuoli, l'altra seduta su la sponda del fosso invaso dalle erbe, guardavano con indifferenza lo spazio conceduto ai loro occhi.

      Tacevano i campi nella lunga ora pomeridiana e nella ferma calura della fine di giugno; la casa, vuota delle solite voci, sembrava aspettare in un abbandono tranquillo; e la vita, che urgeva d'intorno e di cui non percepivano l'arcano senso, infondeva nel loro animo una letizia quieta, come se nel mondo ci stessero solo loro due, e così paghi, o come se il mondo fosse un bene dato a lor due soltanto. Anche, per essi soltanto le cincie e le averle pareva che pungessero di pigolii e gridii l'immoto silenzio. E se abbassavano le palpebre e poi le rialzavano, la luce vibrante al limite dell'ombra era quale un fulgido e tremulo velo diffuso sulla terra perchè essi, a scorgerlo, fossero contenti di trovarsi, così, sulla terra.

      – Cosa fai, dunque? – domandava sorridendo il vecchione.

      E la piccolina rispondeva seria:

      – Lavoro. Non vedi? – Si provava a intrecciare spiche di loglio. Nè, attenta all'impresa, poteva curarsi di lui, che cercava attirarla coi più dolci nomi e le promesse più dolci per afferrarla, sollevarla su le ginocchia e simulare di divorarsela in un boccone, vólto contro vólto; i capelli bianchi contro i capelli biondi. – Hamm! ti mangio!

      Quelle per lei eran carezze faticose, sì valide braccia aveva ancora il vecchio; ma in compenso, quando lui allentava la stretta, lei scappava sicura di pareggiar la partita.

      – Prendimi!

      Prenderla? Da anni il nonno aveva perduto l'uso delle gambe. E rideva o sgridava. Sgridava a tutti, fieramente, donne e uomini; quasi pretendesse veder ripartita e accresciuta in ognuno l'energia che non aveva più e l'energia che gli era rimasta, o quasi volesse garantirsi del comando – sebbene costretto a farsi reggere a braccia ogni volta che desiderava mutar luogo. Ma a lei, la figlia minore del figlio minore e prediletto, non aveva mai rivolta una parola cattiva; e guai a chi la toccasse!; e se non l'aveva vicina, sempre gli si offuscava la faccia chiara, intorbidava lo sguardo limpido. Con lei diveniva bambino nei discorsi; nei giuochi le era uguale.

      – Vieni qua! Porta qua – le disse – , che ti aiuto!

      No. Diffidava; non aveva voglia di resistere alle tentazioni dei morsi, di premere le mani contro la faccia rugosa, per non soffocare, nè di strillare a difesa.

      Ma poi la sedusse la proposta di una nuova gabbia da grilli. A comporla occorrevano gambi di erba volpina e non di loglio; e il nonno glieli indicava; e la esortava di non andar al sole a coglierne, e di non piegarli e romperli nello strappo.

      Quando bastarono, la gabbia fu presto in ordine. Non appena però fu compiuto il lavoro, si compiè il tradimento.

      – Hamm! Ti mangio!

      Le strida sbigottirono fin i passeri, su per il tetto.

      E il grillo?

      Rispondeva il nonno che i grilli di giorno stanno in casa, per uscir la sera a cantare alla luna e alle fate.

      E lei, credula, ripigliò la faccenda di prima; decisa a non lasciarsi ingannare mai più.

      Ora il vecchio l'udiva borbottare senza ascoltarla e seguiva il ronzo d'un calabrone tra il folto dei rami. E, come la piccolina quando egli protraeva una tiritera noiosa, chinò il capo; e a poco a poco si addormentò.

      C'era tuttavia da dubitare che fingesse, per tradir poi di nuovo; e l'altra venne a lui adagio; lo considerò un pezzo, lo toccò a un braccio; fuggì zitta. Dormiva? Ripetè, più ardita. Lui non si mosse; una mosca gli passeggiò sul naso: essa rise, e si convinse che dormiva davvero.

      Che cosa fare adesso? Pensava di scappar via; di correre dal garzone, il quale sapeva formar bambocci con la paglia o con la mota; pensava di inseguire una farfalla al sole.

      Ma rammentava le minacce materne e l'imposizione di non scostarsi dal nonno; e trovò meglio imitare il nonno. Per dormire allo stesso modo di lui si assise al piede del noce, appoggiata al tronco. E il calabrone che, tra il folto, ronzava per addormentar lei pure, l'addormentò.

      Il vecchione


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