In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

In faccia al destino - Albertazzi Adolfo


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ripresa con me tutta la confidenza d'un tempo, di quando era la mia «piccola amica». Ah se avessero potuto immaginare che fatica mi costava tutto ciò! Ma intanto io mi domandavo perchè non approfitterei del loro aiuto a ricuperare il dominio della mia volontà. Volli restar con Mino; volli vedere che facevano gli altri… Mi affacciai alla porta della sala dove la signora Fulgosi cominciava a tempestar un waltzer sul pianoforte; le ragazze e i giovani le facevan chiasso d'intorno. Quand'ecco tonò una voce gioconda.

      Era l'ingegnere preposto da Moser a dirigere la fabbrica di laterizi.

      – Arrivo! Pazienza! – egli rispose alle voci che lo chiamavano.

      Ma prima corse a consegnar delle carte a Moser, a dargli notizie, a prender ordini. Di sulla porta io l'osservavo.

      L'ingegner Roveni quando parlava d'affari era parco nelle parole, immobile, attento. Aveva risposte pronte. L'antipatia che mi separava da tutti gli estranei non poteva resistere contro di lui; anzi dal primo giorno che l'avevo visto non mi era spiaciuto quel giovane dalla fisionomia decisa: non bella per il naso breve un po' all'insù, ma abbellita da due folti baffi biondi; e dalla persona robusta e a mosse un po' dure, quasi di macchina non ben levigata e non in piena attività, eppure in un perfetto equilibrio di tutte le forze alla regola dell'arbitrio. Per una inesplicabile contraddizione non mi spiaceva quell'uomo, ambizioso, si vedeva, fin dal modo di camminare.

      Passandomi accanto egli mi salutò con un franco:

      – Buona sera, dottor Sivori! – e andò difilato a prender Anna Melvi per ballare il waltzer.

      Io mi riaccostai agli uomini seri.

      – Che fibra! – disse Claudio, che ora parlava di Roveni. – Tutto il giorno lavora per me e la notte studia per sè.

      Aggiunse che Roveni s'occupava con passione in studi d'elettricità.

      Quindi disse:

      – Io penso con dolore al giorno che dovrà abbandonarmi.

      Una risposta mi venne al pensiero e alle labbra: – «Hai un mezzo molto semplice per trattenerlo: dagli in moglie una delle tue figliole».

      Ma sarebbe stato come dire a uno che possegga un tesoro: – dallo al tale – , o almeno sarebbe stato come proporre un sacrificio intempestivo; perchè nel sereno egoismo del suo amor famigliare, Moser non s'era ancora accorto che le figliole pervenivano all'età da marito. Perciò tacqui.

      E feci bene. Rientrando poco dopo nella sala dove ballavano, scorsi d'improvviso che la maggiore delle sorelle Moser e la più adatta al Roveni (il quale era sui ventotto anni), aveva già disposto del suo cuore.

      Sì: la timida Marcella… con Guido Learchi… Mentre con Roveni ballava Anna Melvi e Ortensia con Pieruccio Fulgosi, Marcella e Guido si dicevano meno parole con le labbra che cogli occhi; vedevano l'uno negli occhi dell'altra la propria felicità. Non ne mostravano meraviglia nè la Melvi madre nè la signora Learchi, che assistevano da presso il pianoforte. Meravigliato rimasi io; poi disgustato per un turbamento strano; poi, preso da una voglia anche più strana di ridere, ridere d'ironia. – Forse per rivivere vivendo con questi ragazzi dovrei fare all'amore anch'io? – mi chiesi; e fissai Guido ridendo.

      Egli venne da me rosso in faccia, con l'indice al naso:

      – Zzz… zitto, per carità!

      – Oh! credi che anche gli altri non abbiano gli occhi per vedere?

      – Gli altri fingono di non vedere e non dicono nulla – rispose con voce dolente. Sorrideva anche lui, ma per timore. Ed io per spasso quasi crudele chiamai Marcella:

      – Debbo dar retta a Guido?

      Ella era divenuta più rossa di lui; si provava a fingere, a nascondersi.

      – Perchè? che vuol dire?

      – Debbo aiutarvi?

      – Non so… non capisco… Mi lasci andare!

      Invece la strinsi al braccio e le chiesi piano:

      – Gli vuoi molto bene? – ; e la guardavo negli occhi come per impedirle di sfuggirmi. Sentiva essa la punta della cattiveria nelle mie parole e nei miei modi apparentemente scherzosi? Ah io volevo distrarmi: volevo sottrarmi a me stesso: interpormi meschinamente alla vita che vedevo fuori di me, e che mi sfuggiva!

      – Non è vero!..; non so… Chi gliel'ha detto? – rispondeva la poverina, cedendo a poco a poco.

      – E tua madre lo sa?

      Abbassò gli occhi, esitando ancora:

      – Sì… credo di sì; ma il babbo, no! – Mi scongiurava con i begli occhi.

      – Il babbo presto o tardi dovrà saperlo!

      – Oh per amor di Dio non dica nulla! È tanto buono lei! Non ci comprometta, Sivori! Guai, guai, se il babbo lo sapesse ora! – Pregava apertamente; sperava nella sua preghiera ed in me, e appariva ancor timorosa del pericolo. Soave creatura!

      Anna Melvi, rasentandoci, ammiccò; fece: – Zzz… – e ruppe in una bella risata; e i due colombi, Guido e Marcella, mi scapparono.

      Passavano davanti a me, intanto che Anna afferrava Pieruccio e si slanciava con lui, Roveni e Ortensia. Forse anche questa una coppia amorosa? Mi sembrarono estranei l'uno all'altra. L'ingegnere era tutto intento a condur giusto il passo e a non farsi scorger peggior ballerino di quel che era; e Ortensia non dimostrava che il piacere della danza: in un pieno abbandono d'ogni energia al ritmo; con ogni energia raccolta e diffusa nel giacere che le vibrava nel sangue, tutta la persona di lei esprimeva giovinezza lieta, e solo gioia e grazie ignare. Nondimeno allorchè ella cessò il ballo e venne a me, io le dissi con intenzione maligna:

      – Bel giovane, Roveni…

      Oh! essa non si turbò per nulla! Rise domandando:

      – Lo dice a me?

      – A chi dovrei dirlo, piuttosto?

      – Ad Anna.

      – E due! – esclamai persuaso che Ortensia intendesse svelarmi in Anna e nell'ingegnere il secondo paio d'innamorati.

      Appunto allora Roveni, il quale conversava e scherzava ugualmente con le vecchie e con le giovani, lasciava la Melvi madre e la Learchi, e come avrebbe parlato a qualsiasi altra delle ragazze domandò a Ortensia: – Sarà lei che farà ballare il dottor Sivori? – Ma Ortensia non fece in tempo a rispondergli, perchè Anna si staccò d'un tratto da Pieruccio, lo piantò e si porse a Roveni; e via.

      Pieruccio rimase intontito là dove l'aveva lasciato Anna; con quegli occhi bovini rivolti verso di noi, anzi verso Ortensia. A questa susurrai, col solito sarcasmo:

      – Quell'infelice soffre; e si direbbe che soffre per te.

      – No – ella rispose – : soffre per il colletto. – L'alto e rigido colletto l'attanagliava infatti; l'affogava.

      In questo mentre la Melvi accresceva l'esitazione di Roveni e l'induceva a stringerla più forte mancando al tempo o cadendo in contrattempi: gli s'abbandonava affaticata e liberava una mano per risollevare i capelli che le si erano sciolti; ansimava e rilevava il petto turgido alla inspirazione frequente. Poscia di fronte a Pieruccio Fulgosi sorrise a lui, lusinghiera insieme e beffarda. Civettava con l'ingegnere e nello stesso tempo si burlava del giovincello. Ma questi era degno figlio di suo padre, e con l'aplomb di un uomo di spirito s'avvicinò ad Ortensia:

      – Permette?.. Posso?

      Ella accondiscese senza dir nulla; rivolse a me un'occhiata che diceva quanto colui era antipatico anche a lei, e riprese dopo pochi passi quella letizia ingenua che nel ballo dimostrava con ogni compagno.

      Io tornai ad osservar Marcella. Più di Ortensia la vista di lei tratteneva la mia attenzione perchè Marcella, che, a guida di Roveni e di Fulgosi danzava in maniera scolastica e fredda, la vedevo ora, che ballava di nuovo con Learchi, quasi arrisa tutta dal lume de' suoi occhi: era la felicità di un rapimento, l'accondiscendenza di un'anima pura alla felicità dell'anima che la rapiva seco. Ugualmente per Guido. Inconsci di quanto poteva essere di materiale


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