In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

In faccia al destino - Albertazzi Adolfo


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siete ancora molto debole, ed è tardi – io dissi a Eugenia, alzandomi…

VI

      Nel giardino, dietro i due abeti gemelli, un folto di ligustri, mirti e semprevivi formava capanna. Là Claudio e il medico curante portarono, sulla poltrona, Eugenia. Li avevamo seguiti io e le ragazze, timorose queste; ma io non provavo niente di quel che provavano gli altri.

      Più visibili, là fuori, erano nella convalescente le tracce della malattia che l'aveva prostrata; manifeste vene azzurrine segnavano alle tempie la pura fronte; profonde e oscure, nel pallore diafano del volto, le occhiaie; infossate le guance; violento il rilievo agli zigomi e alle mandibole. E le mani… così bianche! così affilate!..

      – Ah Sivori! – ella mormorò con un pallido sorriso, quasi mi dicesse: «Come sono contenta».

      – Zitta! – impose Moser. – Zitte anche voi! – disse alle ragazze, che non fiatavano e guardavano ora alla madre ora al medico.

      Ma questi, ristato un po' in attenzione dinanzi ad Eugenia, si mostrò del tutto tranquillo per lei e pago di sè.

      Io pensavo che avrebbe dovuto consigliarla a chiudere gli occhi, a riposare, forse anche a dormire, piuttosto che permetterle di guardare, ascoltare, accogliere di urto, subito, la vita che le ferveva intorno. Invece egli disse solo:

      – Si ricordi, signora, che appena si sentirà stanca dovrà dirlo; e l'ingegnere e il dottor Sivori la porteranno in casa. Mi raccomando!

      Dopo la quale raccomandazione e poche altre parole, prese commiato.

      – Come ti senti? – chiedeva Moser indi a poco.

      – Bene, tanto bene!

      Per lasciarla tranquilla, Claudio si mise ad andar su e giù lungo il viale, al margine dell'erba, fermandosi a quando a quando a riguardare. Marcella, tacita, sedette sul sedile di macigno, presso alla madre e ripigliò il crochet; e Ortensia di su un più basso sedile di pietra, dall'altro lato, poggiava il mento su uno dei bracciali della poltrona; e non potendo tacere, susurrava puerili e dolci espressioni d'affetto: – Mamma buona…; mamma bella… – Io, in piedi, ero col dorso appoggiato a un tronco. Ora con interpretazione perspicace, sicura, seguivo in Eugenia ogni successiva impressione; i moti del cuore e dei nervi; la vicenda e l'aumento delle sensazioni; e insieme con queste il rampollare delle idee… Appena oso dirlo. Prevedevo che l'impeto della vita fra breve sarebbe, per la delicatezza e sensibilità di Eugenia, troppo rapido e violento; ma non ne avevo timore. Freddamente, curiosamente, l'osservavo; e senza sforzo, come per abitudine antica a oggettivarmi, vedevo tutto quello che succedeva in lei. Tutto!

      Il suo viso, così pallido, esprimeva la meraviglia, lo stupore di una coscienza adulta in un corpo che rinasca; l'ineffabile, sovrumana letizia d'un'anima che scorga e misuri e accresca di sè un rinnovarsi di sensazioni infantili.

      Poichè i suoi sensi, che il lungo riposo aveva affinati e indeboliti la malattia, non comportavano tutte le impressioni in una volta, ella, da prima, non potè non socchiudere gli occhi e raccogliersi come percepisse indistinta, dalla minor vista e dai più tenui fremiti, l'anima universa; e, con l'imaginativa, in ogni vena d'erba, sentì fluire dalla terra l'umor fresco, fecondo e perenne; e vide l'alito che molceva le foglie, passava tra le fronde; e potè discernere, fugaci o più vive d'ogni altro suono, recondite armonie di api e d'insetti. Che sapore incerto di menta e di timo! che vago profumo! Dei fiori, volle; ma poco odorosi, poco odorosi… Poi guardò; volse lo sguardo: a lungo attese a una turba di moscerini che in vortice, per un inesplicabile fine, s'incorreva entro una spera di sole; e la distrasse una ragnatela che fra due rami riluceva quasi d'argento; e vi tremava al disopra una foglia da una fibra sola trattenuta in un'agitazione alacre e incessante. Ma ecco: una capinera, lontana lontana, accennò, interruppe, riprese con arte. Mentre così cantava la capinera, lontana lontana, men lungi, repentinamente, un uomo urlò e prolungò un nome.

      E intanto – anche prima? – l'arguto ribattere di un incudine, che nel suono rendeva una visione di sprizzanti scintille, a ogni colpo. Da presso, non prima udita, rumoreggiava per uomini e per carri la via: eppure non si perdette nel tumulto uno stridìo di rondini…

      Ma stordiva il tumulto, a poco a poco sempre più vasto, molteplice, pieno: stormivano le frasche, cinguettavano i passeri, risonava la strada, e l'incudine; e umane voci; e uno schiamazzar di galline; e un trottar fondo di cavalli; e un rimbombar di echi. Un richiamo di mille voci in una voce sola; un clamoroso accordo d'innumerevoli creature in terra; una sensibile intesa di anime in cielo; una confusione enorme; un portentoso palpito; un'intensa fatica; una gioia insopportabile; un affanno mortale…

      – Mamma! – gridò atterrita Ortensia, più pallida della madre. – Mamma! mamma! – invocò Marcella. E Claudio accorse.

      Ma io, che avevo previsto, mi mossi appena.

      – Non è nulla – dissi – ; una lieve commozione… È vero, Eugenia?..

      Essa, scorgendo con quale angoscia avevan dubitato che mancasse, e strappandosi del tutto, con la volontà, da quella partecipazione intensa e da quell'abbandono della sua vita rinnovata alla vita universale, e risentendosi del tutto salva, nel sangue e nell'anima, salva per l'amore de' suoi, sorrise; e pianse.

      Ripeto: tutto ciò, o per vista o con immaginazione positiva, io avevo osservato con «occhio clinico»; avevo inteso con scientifica penetrazione, misurato e valutato con razionale precisione, senza turbamento alcuno! Anche il grido d'Ortensia e di Marcella, e l'accorrere di Claudio, e le lagrime di Eugenia tutto, tutto «naturale», tutto «necessario», come la «funzione» d'un qualsiasi organo, o l'andamento di una qualsiasi macchina! Il miglior amico dei Moser era rimasto impassibile alla loro angustia. Non solo: io avevo taciuto ciò che, per aver previsto, avrei dovuto consigliare evitando agli altri un'apprensione grande, e un pericolo, forse, ad Eugenia…

      Pensai allora, in quegli istanti, che anche un delitto in me era possibile… Possibile? Per provar rimorso indietreggiai nei ricordi; riflettei sul diritto che aveva Claudio alla mia gratitudine e al mio affetto: niente!.. Rammentai la bontà di Eugenia…: niente! Il mio cuore era sordo; il mio cuore era incurabile!..

      – Rientriamo? – ripeteva, insisteva Claudio.

      Eugenia pregava:

      – Ancora un poco…: dite, Sivori?

      – Ma si!; un poco…

      … Ah che respinto del tutto in me stesso, non cercavo più che me stesso, disperatamente!

      «Anche un delitto era possibile». Con rapida, ansiosa riflessione, volli accertarmi del mutamento in cui per qualche giorno avevo confidato; tutto quel che avevo detto e fatto ricercai con la disperazione di chi comprende d'aver tentato invano; e non vorrebbe credere…

      Invano avevo ripreso l'esercizio della volontà; invano mi ero raccolto, per dimenticarmi, in azione e considerazione di piccole cose; invano avevo giocato con Mino e avevo voluto abbattermi nella puerilità.

      Io era un uomo che una vendetta orrenda aveva gettato a vivere in un abisso e che di laggiù, dalla profondità tenebrosa, per rincrudimento alla condanna, riceveva fuggevoli barlumi… Peggio! Peggio! Io era un naufrago alla cui speranza era rimasto, in mezzo alle onde, il solo appiglio di fuscelli!

      «Anche un delitto…» E perchè no? Forse mi bisognava ricorrere al male, a un male più grande, per uscire da quello stato in cui mi trovavo; ricorrere a qualunque mezzo… Io dovevo procurarmi forse un rimorso per mezzo d'una colpa a cui non potesse sfuggir più la mia coscienza.

      Eugenia risollevò le palpebre. Sorrideva; mi sorrise.

      – Vedete che la mamma ride? Vedete? – disse Ortensia beandosi nelle carezze che faceva a sua madre.

      Io fissai Ortensia: bionda; rosea in viso; bella; con gli occhi luminosi; con un sorriso che aveva e dava luce. Che bella figliola!

      Quale disgrazia se l'ala della morte toccasse d'improvviso quel fiore! se quella giovinezza cadesse atterrata; fatte smorte quelle guance; chiusi quegli occhi; fermo e freddo quel cuore: divenuta, a vederla in volto, quale il ragazzo che, da studente, avevo visto spolpare nella sala anatomica…

      Ecco:


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