Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - Amari Michele


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Fatemiti: nelle quali imprese la nazione kotamia si dissanguò; si trovò menomata a quattromila uomini verso la metà del duodecimo secolo; nel decimoquarto, qualche tribù che ne rimanea soffriva il giogo di Tunis, e in oggi se n'è dileguato il nome.242 Non primeggiava per vero nella confederazione la tribù stanziata a Ikgiân. Ma la mente di Abu-Abd-Allah, l'accentramento e ardore della setta ismaeliana le dettero tal vigore, da soggiogare qualche tribù rivale, tirarsi dietro le altre, e unire la nazion kotamia, anzi una gran parte della schiatta berbera, contro i vincitori Arabi. Ibrahim-ibn-Ahmed dal suo canto aveva arato quel terreno più che i mistici agricoltori ismaeliani; fin avea liberato la nazione kotamia del disagio che le davano i bellicosi Arabi di Belezma.

      Ed egli stesso gittò la prima scintilla. Risaputo dal governator di Mila come l'oscuro professore d'Ikgiân osasse accusare d'eresia Abu-Bekr e Omar, mandò ad ammonirlo di frenare la lingua; e, se no, vedrebbe. Abu-Abd-Allah, invece di rispondere, si mostrò in campo (901) con giusto esercito, con simboli non più visti, scritti su le bandiere, nei suggelli delle lettere e nel marchio dei cavalli; ordinò gli oficii d'amministrazione militare; afforzò la casa del rifugio a Ikgiân; diè il motto di guerra “In sella, cavalieri di Dio;” apertamente bandì la rivoluzione politica e religiosa. Così la società ismaeliana, compiuti i lavori a suo bell'agio tra genti guerriere e luoghi inaccessibili alla vigilanza dei governanti, uscia dalle tenebre improvvisamente in sembianza di Stato antico che facesse guerra, non di moltitudine tumultuante e confusa. Sbigottì Ibrahim a quel terribil segno. Comprese che la viva forza da lui sciupata si stoltamente, ormai non bastava contro la ribellione sciita: pertanto si provò a suscitar la guerra civile tra i Kotamii; a calmare gli altri popoli con le riforme; e si affrettò all'abdicazione. Scendendo dal trono raccomandò al figliuolo che non assalisse mai primo gli Sciiti, si difendesse, e abbandonato dalla fortuna si ritraesse in Sicilia.243

      CAPITOLO VI

      S'uom potea riparare alla rovina di casa aghlabita, quel desso era Abd-Allah, successor del tiranno. Abd-Allah par modello dell'ottimo principe musulmano del medio evo: prode della persona, cavaliero e schermidore perfetto, savio capitano, bell'ingegno, poeta, dialettico, erudito, rettorico, e, quel che monta assai più, giusto, magnanimo, benigno, temperato nell'esercizio del comando, osservatore d'ogni precetto di sua religione. Preso lo Stato alla abdicazione del padre,244 mandò lettere circolari da leggersi al popolo adunato, per le quali promettea zelo nella guerra sacra, e nel governo umanità, giustizia, amor del ben pubblico. E che non scrivesse ciance di principe nuovo provollo coi fatti, chiamando appo di sè un consiglio di molti savii e dotti uomini (queste son le parole d'Ibn-el-Athîr), che lo aiutavano a condurre gli affari secondo giustizia e proponeano i provvedimenti richiesti dalle condizioni del popolo. Come i predecessori, sedè egli stesso nel Tribunal dei soprusi. Volle che i magistrati ordinarii rendessero ragione, senza contemplazion di persone, contro oficiali, cortigiani, congiunti o figli del principe e contro lui medesimo. Eletto il novello cadi dal Kairewân, gli commise di reprimere severamente i soprusi dei riscuotitori delle tasse e proteggere gli oppressi. Riformò al tempo stesso la corte: vestitosi di lana come i primi califi; sgombrati que' nugoli di pretoriani; fuggito a precipizio dalle insanguinate castella del padre, sì che soggiornò nei primi tempi in una casuccia di mattoni, poi ne fece acconciare una più spaziosa, comperate entrambe del proprio. Forte di sua virtù, sdegnando i consigli tiberiani del padre, Abd-Allah mandava contro gli Sciiti un esercito capitanato dal proprio figliuolo, altri dice fratello, soprannominato Ahwâl. E già la vittoria seguiva gli auspicii del principe guerriero; e la contentezza de' popoli promettea che la ribellione, ristretta a una tribù, presto sarebbe spenta.

      Quando un vil parricida troncò ogni speranza degli Arabi d'Affrica. Ziadet-Allah, figliuolo di Abd-Allah, rimaso a reggere la Sicilia dopo la morte d'Ibrahim, s'era dato a vita sozza e bestiale con vili cortigiani che lo stigavano contro il padre perchè sentiansi soffocare da quella severa riforma. Risapendo tai vergogne, Abd-Allah deponea d'oficio il figliuolo; chiamavalo a Tunis; e, arrivato ch'ei fu del mese di maggio novecentotrè, come a fanciullo discolo, gli tolse danaro e arredi e sì il chiuse in un appartamento del palagio, messi in prigione a parte i suoi cagnotti. Ma le mura non furon ostacolo a una congiura di corte che si ordì, consapevole Ziadet-Allah. Il mercoledì ventisette di luglio,245 uscito Abd-Allah dal bagno e gittatosi a dormire in parte solitaria del palagio sopra un sofà di stuoie, tre eunuchi schiavoni ch'ei tenea molto fidati gli si appressano; un trae pian piano la spada di sotto il capezzale; e d'un fendente tagliò netto e collo e barba e intaccò la stuoia. Corre un altro alla prigione di Ziadet-Allah; scala il muro; lo saluta re; gli fa pressa di mostrarsi alla corte: ma quei temendo doppio tradimento, risponde che, se dice il vero, gli rechi la testa del padre: onde l'eunuco andò e tornò e gli gittò la testa d'in sul muro. Presala in mano, raffiguratala, il parricida balzò di gioia; fe' spezzare le porte della prigione; assembrare i grandi di casa aghlabita; i quali sospettando, o no, il vero, per paura degli stanziali, o perchè la virtù di Abd-Allah lor fosse stata anco molesta, giurarono fedeltà al successore. A cancellar sue proprie vestigia, questi fece scannare immantinente i tre sicarii, e appendere i cadaveri al patibolo.

      Pria che si risapesse il misfatto, Ziadet-Allah scrivea col suggello del padre ad Ahwâl di venir subito a Tunis; il quale senza sospetto, lasciò lo esercito, e per via fu preso e morto. Uccisi al paro da trenta, tra fratelli, zii e cugini del novello tiranno, in un isolotto246 ove li mandò sotto colore di rilegazione; dato lo scambio a' primarii magistrati; gratificati con largo donativo gli oficiali pubblici. Del rimanente, non curando se lo Stato andasse bene o male, Ziadet-Allah ripassava dal sangue nel fango: regnava sette anni trescando con sicarii, giullari, beoni, concubine e giovani svergognati; arrivava a far batter moneta col nome del paggio Khattâb; e quando avea mala nuova della guerra sciita, diceva al coppiere: “Mescimi; e anneghiamola in questa tazza.”247

      Abu-Abd-Allah intanto conquistava l'Affrica. Nel regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed avea soggiogato qualche popolazione agricola (901) e combattuto una tribù guerriera della nazione stessa de' Kotâmii. Venuto alla prova contro gli eserciti aghlabiti al tempo d'Abd-Allah, il ribelle or vinse or fu vinto; e n'avea la peggio, quando Ziadet-Allah lo cavò di briga col parricidio e il fratricidio (903). Poscia, tra le vicende della guerra, salì pur sempre la parte sciita. Non solo tutta la gente kotamia, ma anco altre popolazioni berbere seguiron volentieri un capo che promettea la venuta del Messia e quanto prima soggiogati tutti i popoli della Terra, e fatto spuntare il sole di Ponente; e dava pur qualche arra de' prodigii. Arra la vittoria, il bottino, la propria temperanza, austerità, abnegazione, l'abolizione del kharâg o diciamo tributo territoriale, antichissimo sopruso degli Arabi sopra i Berberi: e questo ribelle, entrato a Tobna, e recatogli il danaro pubblico, rendeva il kharâg ai possessori musulmani; aboliva le tasse non prescritte nel Corano o nella Sunna; e bandiva ai popoli che ormai non avrebbero ad osservare altre leggi che i sacri testi. All'incontro i sudditi fedeli pagavan troppo caro le vergogne di Ziadet-Allah. Gli eserciti, accozzati di stanziali e avanzi del giund, che è a dire di tormentatori e tormentati, marciavano di pessima voglia; e talvolta sbaragliavansi pria di venire alle mani, non ostante gli immensi appresti d'armi e macchine da guerra; e quali capitani lor potea dare tal principe? Entro pochi anni, Abu-Abd-Allah minacciò la metropoli dell'Affrica (907). Il tiranno, provatosi a far grande armamento e montare a cavallo egli stesso, tornò addietro spaurito a Rakkâda, rifatta sede della corte aghlabita; afforzolla con mura di mattoni e mota;248 affidò l'esercito, troppo tardi, ad un uom di guerra di sangue aghlabita, per nome Ibrahim-ibn-abi-Aghlab; la cui virtù non valse che a ritardare la vittoria del nemico. Di marzo novecento nove, Ziadet-Allah, all'avviso di un'ultima sconfitta d'Ibrahim, tenendosi spacciato e tradito da costui, dal primo ministro, dai soldati, dai cittadini, si deliberò a fuggire incontanente. Dà voce di riportata vittoria; fa tagliar le teste ai miseri che teneva in carcere e condurle a trionfo per le strade di Kairewân, come se fossero dei nemici uccisi in battaglia; e intanto a Rakkâda, ch'era discosta a quattro miglia, entro il palagio si caricavano trenta cameli d'arredi preziosi, oro, gioielli; mille Schiavoni della guardia erano messi in ordinanza, e dato loro a portar mille dinar


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<p>242</p>

Confrontinsi: Edrisi, Geografia, versione francese di M. Jaubert, tomo I, p. 246; Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, versione francese di M. De Slane, tomo I, p. 291; Cronica di Gotha, presso Nicholson, An account of the establishment of the Fatemite Dynasty, p. 88.

<p>243</p>

Confrontinsi: Baiân, tomo I, p. 118; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 145-147; Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 113, seg.; Ibn-Hammâd, MS. di M. Cherbonneau, fog. 1 verso.

<p>244</p>

Credo il 22 rebi' primo del 289 (5 marzo 902) più tosto che a mezzo giugno del medesimo anno. L'una e l'altra data si legge nei medesimi autori: ma forse non è errore, e la prima va intesa dello esercizio del potere supremo, la seconda della solenne inaugurazione per la quale forse si aspettò il diploma del califo abbassida. Veggansi le autorità citate qui sopra a p. 77, e Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso, che porta appunto la data del 22 rebi' primo.

<p>245</p>

Il mercoledì ultimo, secondo Ibn-el-Athîr, e penultimo giorno, secondo il Baiân, del mese di sciabân 290. Indi si vede che l'uno segue il calendario astronomico, e l'altro il conto civile, di che si è fatta parola al cap. III del Libro I, pag. 57, del 1º volume.

<p>246</p>

Detto Geziret-el-Kerrâth, ossia “Isola dei Porri.” Così fu chiamato dagli Arabi un isolotto a Capo Passaro in Sicilia, che ritien oggi il nome voltato in italiano. Ma credo qui si tratti della Geziret-el-Kerrâth in Affrica, a 12 miglia da Tunis.

<p>247</p>

Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 172 recto, seg., an. 289, e MS. C, tomo IV, fog. 279, stesso anno, e fog. 286 recto, seg., an. 296, e MS. Bibars, an. 289, fog. 129 verso; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso e 34 recto; Baiân, tomo I, p. 128, 138, 139; Nowairi, Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldûn, versione di M. de Slane, tomo I, p. 438 a 440; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 146 a 149; Ibn-Abi-Dinâr, testo MS., fog. 21 verso, e traduzione, p. 87; Ibn-Wuedrân, nella Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 429, seg.; Cronica di Gotha, versione di Nicholson, p. 51, 74, 75.

<p>248</p>

Rendo così la voce arabica tâbia, donde lo spagnuolo tapia e credo anco il siciliano taju. In quest'ultima voce la b par mutata dapprima, alla greca, in v, e poscia dileguata nell'j.