La guerra del Vespro Siciliano vol. 2. Amari Michele
sede, legato il vescovo di Martorano, capitano Riccardo Morrone, col bando della croce e le bandiere della Chiesa; non potendo Onorio queste dimostrazioni negare quand’altri apprestava le forze. E nello stesso tempo, quarantasei tra galee e teride e più grosso esercito, s’adunavano a Sorrento con tutti i primi feudatari del reame, per tentare altra impresa e tenere in dubbio il nimico.
Salpò l’armata di Brindisi il quindici aprile; fe’ uno sbarco a Malta30; e improvvisa gittossi in Agosta il primo di maggio, colto il tempo che il popolo traendo alla fiera di Lentini, lasciato avea vota la città, e mal guardavasi il castello. Perciò senza trar colpo sbarcarono. Ma facendosi ad amichevol parlare tra quelle mura vent’anni pria contaminate da lor gente con empio macello, gl’invalidi cittadini rimasi in Agosta con alto sentimento risposero: non li sperassero men che nimici giammai, nè da altra siciliana città s’aspettassero se non guerra. E replicando gli stranieri che veniano di voler del pontefice, un vecchio infermo, Paccio per nome, «Tenghiam noi, rispose, madre la Chiesa, nimico chi adesso la regge, poichè armi ed armati invia a combatterne. Al legato or chiedete s’Iddio mai comandò di sparger sangue cristiano per asservire cristiani! E s’ei diravvi che il comandò, miscrede al vangelo; e da noi apprenda che la fede cristiana dà sole armi alla Chiesa, l’umiltà, la croce, e la soave parola.» Così in que’ tempi pensava la Sicilia! Occupata da’ nimici terra e castello, non tornavano i cittadini in Agosta. E spargendosi l’allarme tutto all’intorno, si sgombravan gli armenti, si abbandonavano i campi, si riducean gli abitatori a’ luoghi più forti, con proponimento d’ostinata difesa31.
Giacomo n’ebbe avviso in Messina, ove sedea per l’opportunità della guerra, ma in ozio, o ingannato da’ rapportatori che davan queto al tutto il nimico. Bella ammenda ne fece. Chiama incontanente alle armi i feudatari e le città de’ contorni; comanda per tutta l’isola di metter in mare le galee; a ciò parlamenta egli stesso i Messinesi, appellandoli popol suo, suo, ripigliava, sol per cittadinanza e amistà; e a Loria come figliuolo al padre si accomandò. Il quale, tornato poc’anzi di corseggiare coi Catalani sulle costiere di Francia e far ossequio ad Alfonso nel suo coronamento a Saragozza, ridivenuto grande nei pericoli, correa a Messina ad armare le navi, con tutto il popolo generoso, che a gara aiutando fervea nell’opra; senza prender, altrove che nell’arsenale, scarso cibo e riposo; infiammato dall’ammiraglio con lodi, carezze, ed esempio di stender ei stesso la mano a’ lavori. E in questi sudava Ruggiero una notte, affumicato, sbracciato, in farsetto, quando alcun famigliare di corte gli susurrò, che stando il re coi suoi più fidati a trattare i disegni della guerra, suggerito avesser costoro dar lo scambio all’ammiraglio, pien di tanta iattanza, ma rattiepidito, fors’anco mal fido. Onde Ruggiero, così com’era, montato in palagio, dinanzi al re proruppe a rimbrottar gli avversari, poltroneggianti nelle sale della reggia mentr’ei correva i mari, affrontava nimici e tempeste, assicurava i lor ozi con tante vittorie: e voltosi a Giacomo, rassegnò il comando. Confitti al brusco piglio, abbassaron la fronte i cortigiani; e il re, che lui assente avea difeso con assai calde parole, il pregò di ciò ch’ei stesso bramava, di ritenere il comando. Indi l’ammiraglio tornò con doppio ardore ad apprestar l’armata, che fu pronta in sei dì. Giacomo, lasciata la madre nella rocca di Matagrifone, e munita e leale Messina, movea a dì quattro maggio per Taormina, con dieci soli compagni. Il dì sei fu ad Aci e a Catania; ove accozzaronsi da mille cavalli e molte migliaia di fanti, tra milizie feudali, cittadinesche, e mercenarie.
Avean quello stesso dì tentato Catania i nimici, fidandosi nelle macchinazioni de’ due frati, che s’eran tirati dietro molti giovani vogliolosi di novità; i quali messero occultamente in città e nascosero in un abituro dodici uomini d’arme francesi, che a notte schiudessero la porta della marina; e dovea entrarvi un grosso stuolo, che spiccato d’Agosta si pose in agguato a due miglia da Catania, mentre una punta della flotta si mostrava in que’ mari. Ma il popol che levossi in arme scoprendo le navi, fe’ stare i traditori al di dentro, i nimici al di fuori; poi venuto il re con le genti, riseppe i primi e vegliolli senza farne sembiante, si ritrasser la notte i nimici. Con aspra scaramuccia ferironli allora sol dieci cavalli e cinquanta balestrieri catanesi, sortiti senza saputa del re, con Martino Lopez Catalano e messer Forte Tedeschi da Catania, che Giacomo in premio fe’ governadore di Aci; i quali nell’oscurità della notte ruppero il retroguardo che ripassava il Simeto, e tronche le funi della zattera, molti Francesi fecero prigioni, molti uccisero, i più periron nel fiume. In que’ dì Catania offriva lietissimo spettacolo ad animo siciliano. Approdarono pria con l’ammiraglio venzette galee, poi tredici: adunavansi grosse bande di milizie feudali: e mentre il re pensava chiamar parlamento per chiedergli moneta, nel fornirono i cittadini di Catania largamente; tra i quali una vedova, Agata Seminara per nome, presentavagli dugento once d’oro, e tutti i suoi gioielli per la difesa della patria. Notavansi tra i primi dell’oste Guglielmo Calcerando catalano, e’ nostri Riccardo Passaneto da Lentini, Riccardo di Santa Sofia, Ramondo Alamanno maresciallo del re, Corrado Lancia, Matteo di Termini, Antonio Papè da Piazza; tra la forte gioventù delle galee di Catania ricordasi un Niccolò la Currula, che lottava co’ tori e abbatteali. Queste armi drizzaronsi incontanente sopra Agosta. La notte innanti il tredici maggio fe’ vela l’armata; allo schiarire del dì mosse il re con le genti, dodici giorni dopo l’occupazione nemica: nel qual tempo s’eran armate quaranta galee, ben oltre mille cavalli, e più migliaia di pedoni32. Tanto vigore ebbe Giacomo, prontezza il popolo, e virtù il patto che strignea re e popolo! Leggiamo in vero che dubbiosi palpitavan tutti in quel tempo, accrescendosi pel caso d’Agosta i sospetti d’umori volti a novità. Ma debol coda eran questi dello scontento nazionale, riparato da Giacomo con le riforme, e di qualche rancore privato contro gli atti severi di lui; la qual macchia non togliea che in questo incontro gl’interessi della nazione e del re fossero un solo.
Primo in Agosta arrivò Loria con la flotta; e non trovando l’inimica, senz’altro, sbarcò e assalì. Donde nelle strade della deserta città ingaggiavasi aspra zuffa tra le nostre ciurme e’ cavalli nemici, ch’ebber l’avvantaggio dapprima; ma quando Ruggiero, per mettere le genti in necessità della vittoria, fe’ levar le scale delle galee, rattestandosi i nostri e asserragliando le strade con botti e altro legname, tanto ferivan co’ tiri, che rincacciate entro il castello le genti di Rinaldo, s’insignoriron essi della città. Scandol molto diedero in questo scontro, portati dalla infernale rabbia de’ lor consorti Perrone e del Monte, i frati predicatori, saliti in su i tetti del chiostro a provocare i nostri che pugnavano co’ nemici; onde altri ne fur morti, altri si chiuser co’ nemici in fortezza, due caddero in man dell’ammiraglio. Un di costoro, capuano, svelò l’appresto delle nuove forze in Sorrento contro val di Mazzara, e che la armata partita d’Agosta, navigava già sopra Marsala con Arrigo de’ Mari, cittadino di quella terra, partigian de’ Francesi. Giacomo, sopravvenendo lo stesso dì con l’oste, vide lo stendardo di Sicilia sui muri d’Agosta. Onde ormai tutte le genti da tramontana, ponente, e mezzodì posero il campo al castello, fortissimo ancorchè in piano, ma scarso d’acqua e mal vittovagliato da Rinaldo, che sognando conquisti, non s’aspettava sì pronto addosso il nemico33.
E il re pria che strignesse la rocca, fatto accorto da’ detti del frate, commette il comando di Marsala a Berardo di Ferro, privato nimico al de’ Mari; provvedendo che ingrossino il presidio Bonifazio e Oberto di Camerana da Corleone, d’origine lombardi34, con gli uomini di quella terra, sì feroci nel primo scoppio della rivoluzione: che inoltre i condottieri e soldati di maggior nome dei monti, scendano a rinforzar le città di marina: che vi si riparin muri e bastioni: e pattuglie battan d’ogni dove le spiagge, per far la scoperta dell’armata nimica. Presso Marsala questa approdò; tentò uno stormo contro la città; e funne respinta. Accozzatovisi Arrigo de’ Mari con dodici galee più, sbarcaron di nuovo; e ributtati nella seconda prova con maggior sangue, senza infestar l’isola altrimenti, fean vela per Napoli35.
Ma all’assedio del castel d’Agosta, poichè il re invano intimava la resa più volte per Corrado Lancia, adoprossi ogni ingegno di guerra de’ tempi. Leggiamo che con una specie di parallela fean gli approcci, tirando un muro a protegger gli artefici; che i fabbri della flotta costruivan terricciuole
30
Questo sbarco a Malta si legge nell’or citato diploma del 15 maggio 1287, con l’altra circostanza che la terra d’Eraclea e altre mandarono a offrirsi a’ Francesi; che par bugia del diploma.
31
Bart. de Neocastro, cap. 110.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 10.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 117, il quale dice 50 i legni di Rinaldo d’Avella.
Montaner, cap. 106, con molti errori nel tempo e nei nomi.
32
Bart. de Neocastro, cap. 110.
Atanasio d’Aci, in di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 279 e seg.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 10.
Nessuno di questi scrittori porta l’appunto delle forze di Giacomo, se non che delle navali. Ma il Neocastro gli dà 1,000 cavalli al primo dì che venne in Catania, e dice poi ingrossata molto l’oste di cavalli e più di fanti.
Il Montaner, cap, 107, porta a 700 i cavalli e a 3,000 i fanti.
33
Bart. de Neocastro, cap. 110.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 10.
Nel Neocastro si legge che Arrigo de’ Mari fosse cittadino di Marsala. Giovanni Villani in altro luogo parla di Arrigo de’ Mari, ammiraglio e genovese, e così leggiamo negli Ann. del Caffari. Se dunque furon due Arrighi de’ Mari, o un solo, nato in una di quelle città e fatto cittadino dell’altra, è oscuro, nè importa molto il chiarirlo.
34
Diploma dell’imperador Federigo, dato di Cremona a 20 febbraio 1248. Indi si scorge che Oddone di Camerana con molti altri Lombardi, lasciata la patria per cagion dell’imperatore, venuti in Sicilia, ebber dapprima Scopello, poi, non bastando, la terra di Corlone che fu data in feudo ad Oddone. Ma essendo quella assai ricca, popolosa, e forte, l’imperadore ripigliandola in demanio, la permutò con Militello in val di Noto, che a lui ricadea per essersi estinta la linea della famiglia dei Lentini (collaterale forse ad Alaimo) che la possedea. Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 12.
35
Bart. de Neocastro, cap. 110.
Anon. chron. sic., cap. 48.