I rossi e i neri, vol. 1. Barrili Anton Giulio
Le guance della donna erano presso alle sue, e i segni della sua ammirazione, tradotti in parole, gli accarezzavano il volto, chiamando il sangue in tutti i meati più sottili di quella superficie, di consueto così pallida.
Lorenzo disegnava, ma il suo sangue ardeva; e in quella guisa che un terreno arsiccio beve avidamente uno spruzzo d'acqua e ne fa sparire in breve ogni traccia, il suo sangue si beveva quel soffio delicato, e riardeva sempre più forte. Ma presto venne il punto che egli non potè più durarla, e alzando il capo verso la contessa, ne disse una delle sue, la più grossa che le avesse ancor detta.
– Oh perchè non posso io dar loro la vita, a questi poveri fiori, e inspirar loro nelle aperte corolle quel dolce effluvio che si spande dalla vostra persona! —
Non era questa la prima avvisaglia, ma certamente la più forte, e la contessa non potè simulare di non averla notata. Risollevò il capo con aria turbata, si volse indietro due passi e si lasciò cadere sul sofà, dove stette silenziosa col viso nascosto nelle palme.
Era graziosa, molto graziosa in quella postura, la contessa Matilde. Le sue mani sottili e delicate che il Bartolini, adoratore di belle mani, avrebbe modellate assai volentieri, non giungevano a coprirle tutto il viso; però la fronte e una parte delle guance lasciavano scorgere quel leggiero incarnato che si dipinge così facilmente sul volto delle donne, quando mette loro più conto.
Più turbato a gran pezza di lei, Lorenzo si alzò e si fece presso alla contessa.
– Signora, – le disse egli con voce tremante, – che cosa ho detto io mai, che abbia potuto spiacervi tanto? Io sarei il più tristo degli uomini se avessi, con animo deliberato, a dirvi cosa che potesse offendere la vostra dignità, o fallire al rispetto che meritate.
– Oh no, signor Salvani; non si tratta di tanto; – rispose la contessa Matilde, in quella che si affrettava a stendergli la mano. – Voi ricadete nella malattia dei complimenti, e ne avete fatto uno testè, il quale, non mi offende già, mi addolora. —
Lorenzo non sapeva che rispondere. Che questa donna non m'intenda? pensò egli tra sè. Che essa non si avveda di ciò che gli occhi miei le dimostrano?
La mano della contessa era ancora nelle sue, e non dava segno di volersi ritrarre. Non era dunque una donna sdegnata che gli aveva parlato a quel modo; e questa considerazione gli diede animo a rispondere, ma senza accorti rigiri, aperto come egli sentiva.
– Signora contessa, mi accusate forse di un lieve fallo, per delicato intendimento di non avermi a rimproverare una colpa più grave, e non farmene arrossire?
– No, vi dico quel che penso; perchè?
– Perchè se voi mi reputaste capace di avervi recato offesa, ve ne recherei scusa e uscirei subito dalla vostra casa. Se in quella vece, come cortesemente mi dite ora, mi accusate di far complimenti, di non dirvi schietta la verità, io vi prego di concedermi libertà di parola, per difendermi da un'accusa che so di non meritare.
– Che aria grave assumete voi, signor Salvani! Parlate pure; io so bene che non potrete dir cosa mai, la quale mi offenda.
– Orbene, signora, vi parlerò schiettamente, checchè possa costarmi. Sono un povero giovine, ma sono altresì un onest'uomo. Questo povero giovine, che vedete dinanzi a voi, è rimasto inebriato dalla vostra bellezza, dalle grazie del vostro spirito. E non istate a dirmi che esco dai confini del vero. In un cuore come il mio l'affetto nasce e germoglia sollecito, e voi siete fornita di così sottile accorgimento da intendere come l'esser vicino a voi abbia potuto turbarmi. Questa è la verità, o signora, e l'onest'uomo, che vedete del pari, sente il debito di dirvela tutta quanta. Se anco questa vi spiace, il povero giovine, l'onest'uomo, se ne andrà; sebbene combattuto dal più fiero desiderio di rimanere, dal più acerbo dolore di non aver meritato una migliore accoglienza, se ne andrà, ve lo giuro, se ne andrà.
– Dio mio! – esclamò la contessa, che era stata ad ascoltarlo in atteggiamento di mestizia. – È egli dunque vero che un uomo ed una donna non possano stare l'uno accanto dell'altra ed essere amici, null'altro che amici? —
Qui la contessa raccolse di bel nuovo la sua bionda testa nelle palme, e stette un tratto a pensare. Lorenzo non rispose, e ricadde sulla scranna, con le mani sulle ginocchia e il capo chino.
– E perchè mai, – proseguì la contessa, come se ragionasse con se medesima, – tutti gli uomini hanno a dire le stesse parole? —
Lorenzo allora sollevò la fronte, e dopo una breve pausa si fece a rispondere:
– Le stesse parole, forse; ma non tutti a questo modo, signora, nè con tanta verità di pensiero. Vi diranno di amarvi; ma nessuno ve lo dirà così presto come io ve l'ho detto, la seconda volta che vi vedo, pronto a soffrire quella pena che voi potreste infliggermi maggiore, negandomi di poter ritornare da voi. Signora, non perdonerete voi dunque a chi vi ha detta la verità? —
E così dicendo, Lorenzo Salvani si alzò, aspettando la sua sentenza.
La contessa alzò la fronte a guardarlo. Il giovane aveva pallido il viso e impresso di una severa mestizia; nè ella seppe tener fermo, senza un poco di turbamento, innanzi allo sguardo profondamente pietoso, ma altero ad un tempo, di Lorenzo Salvani.
– Perdonarvi! – disse ella con voce fioca. – È cosa fatta. Una donna non ha ragione a dolersi se un uomo pari vostro le parla di amore. Taluna forse, più sofistica delle altre, noterebbe che simili parole, perchè s'abbia a ritenerle in ogni loro parte sincere, son forse dette troppo presto.
– Ma io vi ho già detto, o signora, come la penso in materia di amore. Io non pratico, nè conosco la ipocrisia del cavaliere galante, il quale vi s'insinua dolcemente nel cuore, vi signoreggia superbamente quando sia giunto a persuadervi con la sua lunga umiltà. Con me, signora contessa, voi siete padrona di voi medesima; io non aspetto a cogliervi alla sprovveduta; vi amo, e ve lo dico schiettamente con le labbra, poichè mi è dato parlarvi, in quella stessa guisa che ve lo avrei detto e seguiterei a dirvelo con gli occhi, se non avessi altro modo.
– Ma sapete, signor Lorenzo, – (la contessa Matilde disse proprio: Lorenzo) – che queste vostre parole mi mettono in pensiero? Sedetevi qui, accanto a me, e vediamo di poter discorrere tranquillamente. Ho da dirvi anzitutto perchè io v'abbia pregato a venir qua. —
Lorenzo si assise. Il cuore del giovine s'era inondato di gioia, all'udire che la contessa per la prima volta lo chiamava col suo nome di battesimo.
– Parlate, parlate, signora! – esclamò Lorenzo. – Voi sapete pure la mia vita esser vostra, e non essere cosa ai mondo la quale io non fossi lieto di fare per obbedirvi. —
Una stretta di mano lo ricompensò di quelle parole, e se una mano ardeva, l'altra non era fredda di certo.
– Voi siete un uomo d'onore; – incominciò a dire la contessa, con un tal poco di solennità nello accento, – lo so; e appunto per questo ho amato meglio volgermi dirittamente a voi. So che vi siete diportato da prode gentiluomo in un duello, nel quale avevate a contendere con uno dei più valenti schermidori della città, e me ne congratulo con voi, non già in quel modo e per quella costumanza volgare di una persona che s'incontra per via, ma con affetto sincero, ed anco, se non vi è discaro saperlo, con gratitudine, perchè c'era di mezzo una dama, e questa dama voi l'avete difesa, in vece del suo cavaliere che si dimostrava un codardo.
– Come, signora? Voi sapete…
– Sì, so tutto, e non mi riterrò neppure dal dirvi che quella dama… ero io.
– Voi, signora contessa! —
E così dicendo, Lorenzo Salvani la guardò trasognato, come per nuova che giunga inaspettata, sebbene egli stesso, fin da principio, avesse argomentato che l'invito della contessa Cisneri potesse avere qualche addentellato col suo duello di San Nazaro.
– Non vi faccia stupore! – proseguì rapidamente la contessa Matilde. – Se sapeste il fatto, non vi sarebbe difficile intendere quanto poca parte ci avessi. Ero nel mio palchetto in teatro, sul finire dello spettacolo, e mi aveva preso desiderio di salire nel Ridotto a vedere le maschere. Il dottor Collini era nel palchetto, come ci