I rossi e i neri, vol. 1. Barrili Anton Giulio

I rossi e i neri, vol. 1 - Barrili Anton Giulio


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lettore curioso, anche a costo di non far correre abbastanza spedito il racconto.

      Maria era bella, come si è detto, ma non di quella bellezza tutta seste, misure e proporzioni, che piace nelle statue, ed è muta e fredda com'esse; bensì di quella viva e calda e prepotente bellezza, che è tutta espansione, accoppiando la soave euritmia delle forme al raggio divino dell'anima, per modo che tutto parli in lei e commuova, perchè tutto palpita e vive. Il carattere di quella bellezza faceva senso, la grazia angelica de' suoi contorni soggiogava gli occhi e gli spiriti. I capelli neri, che traevano all'azzurro intenso come la classica ala del corvo, i neri occhi, le lunghe ciglia, il naso profilato, la bocca vermiglia, il volto ovale, l'incarnatino delle guance, i delicati contorni del collo, erano tanti ingredienti coi quali uno scrittore esercitato avrebbe potuto comporvi una bellissima testa, e che noi, non sapendo far meglio, vi mettiamo qui alla rinfusa, perchè vogliate formarvela da voi, coll'aiuto della vostra immaginazione.

      Maria aveva di poco passati i suoi diciott'anni; ma il suo cuore, castissimo sacrario di nobili affetti, ne aveva quindici appena. Però gli occhi della fanciulla splendevano di una luce modesta, non scintillavano ancora. Per lei tornava a mente il primo verso d'un celebrato poema del Moore, nella amorosa versione del Maffei: «Sul mattin della vita era il creato». La scienza del bene e del male non aveva ancora profferto il suo fatale insegnamento a quella gentil creatura.

      Tra Lorenzo e Maria correva una certa somiglianza. Ambedue avevano neri i capelli e spaziosa la fronte: ma il volto di Maria era bianco incarnato, quello di Lorenzo era bianco pallido; se il giovane fosse vissuto un tratto alla vampa del sole, quel volto sarebbe diventato bruno, poichè c'era sangue marinaro nelle vene dei Salvani. Inoltre, gli occhi di Maria erano d'un nero turchiniccio, dai riflessi d'indaco; quei di Lorenzo d'un lionato carico, e li faceva parere neri la profondità delle occhiaie, sotto la guardia delle sopracciglia prominenti.

      Più forte tra i due era la somiglianza del carattere, frutto evidente di una parità di educazione, che può farsi in noi come una seconda natura. Senonchè, le esterne sensazioni conducevano l'animo di Maria alla dolce gaiezza, o alla malinconia rassegnata, quello di Lorenzo alla pazza allegria, o alla tristezza profonda. Non c'era gradazione di tinte, nello spirito di Lorenzo Salvani. Ambedue, del resto, sentivano altamente di sè, anime dignitose e preparate ad ogni maniera di sacrifizi. L'impresa dell'armellino: «__malo mori quam foedari__» (anzi che macchiarmi morire) pareva fatto bella posta per quelle due nobilissime creature.

      Era nobile di natali Maria? Lorenzo, qualche volta, celiando, le dava un certo nome! Ma i natali di quella che egli chiamava celiando «la bella marchesina» erano rimasti un segreto fra il colonnello Salvani e sua moglie. Lorenzo teneva in un ripostiglio del suo cassettone, gelosamente nascosto e chiuso, uno scrignetto d'ebano, nel quale il gran segreto aveva a trovarsi di certo: ma i parenti l'avevano dato in custodia a Lorenzo, col patto che fosse il dono di nozze dei Salvani alla cara fanciulla.

      – Un giorno qualcheduno ti amerà, – aveva detto la signora Luisa, – di un amore diverso da quello di mio marito e dal mio. Quell'uomo, se tu lo ricambierai d'affetto sarà degno veramente di te; ed allora meriterà di sapere da che sangue sei nata. Svelartelo ora sarebbe impossibile; e dirti soltanto il nome di tuo padre, che fu onesto, buono e generoso, potrebb'essere un grave pericolo, per te e per altri. Egli ti confidò come un sacro deposito a Rigo Salvani, e noi dobbiamo rispettare la sua volontà.

      – E mia madre? – aveva chiesto Maria.

      – Tua madre è felice. Quel giorno ch'essa chiederà di te, meriterà davvero di esser tale. Per ora ti basti. Ne sei forse accorata?

      – Oh, no! sarei un'ingrata. Finalmente, non siete voi la mia madre vera, da cui tutto mi viene? Se mio padre, colui che mi amava è morto, l'anima sua si è tutta trasfusa in voi altri, per farmi la più fortunata tra le orfane. —

      Queste parole esprimevano allora i veri sentimenti di Maria; ma non è da credere che l'idea di quel segreto non gravasse talvolta sull'anima sua con tutte le ansie di un dubbio doloroso. La povera fanciulla si sentiva troppo sola al mondo, specie da quando la signora Luisa e il colonnello Salvani erano andati a riposare, l'uno accanto all'altro, nelle zolle del camposanto. Ella per giunta aveva inteso bene lo stato critico di Lorenzo, poichè questi l'ebbe condotta a dimorare in Genova, col veterano Michele. Per nessun'altra cosa al mondo il giovane Salvani si sarebbe piegato a vendere la casa paterna, se non fosse stato l'obbligo di proseguire l'opera pietosa dei parenti verso di lei. Questo aveva inteso Maria, e gliene serbava nel cuore una gratitudine infinita. I nuvoli della fronte di Lorenzo essa li conosceva a puntino, come il marinaio le seccagne della sua rada natale. Erano ben neri, quei nuvoli, e a grado a grado più frequenti e durevoli. Che dolore per lei, che assisteva alla rovina quotidiana del suo fratello d'adozione, senza che fosse in potere suo di recarvi un rimedio efficace!

      E non sapeva ancor tutto; ignorava lo spediente delle ottanta lire al mese, che Lorenzo andava a guadagnarsi a tarda sera nel fondo di una bottega. Sentiva nondimeno le angustie di lui; e non potendo molto, aveva presto pensato di aiutare col poco. Si era indettata per ciò col vecchio Michele. Di giorno, le ore che Lorenzo passava fuori, o nella sua camera a scrivere, la magnanima giovinetta le spendeva a ricamare; e parecchie della notte egualmente. Da quelle sue dita maestre uscivano lavori delicatissimi, che il bravo Michele, per mezzo di certe conoscenze, trovava modo di spacciare presso qualche merciaio; e a volte, quando si trattasse d'opere più vistose e più fini, non arrossiva di metterle in lotteria.

      Per altro, intendiamoci; se non arrossiva di spacciar la roba a quel modo, coll'obbligo di andare attorno e di sollecitare la gente, si ricattava di quell'audacia mettendo le poste salate. E se taluno gli diceva: «costa troppo», egli dava di piglio alla sua roba, e se ne andava difilato, senza più accettare nemmeno quel prezzo ch'egli stesso aveva chiesto da prima. Spregiare a quel modo un lavoro della sua Minerva celata, era un peccato da non portare speranza di assoluzione.

      Quelle ore che Lorenzo passava in casa, erano ore di allegrezza e di festa. Il povero giovane studiava di molto, e non si prendeva uno svago a cui non partecipasse Maria. Ed era bello vederla, con la sua lunga veste di seta nera, o di mussolina bianca (che d'altri colori non usava adornarsi mai), col suo cappellino di paglia di Firenze all'estate, e di velluto nero all'inverno, prigione troppo stretta al volume della nerissima capigliatura, andar leggera leggera al braccio del suo caro fratello.

      Michele non aveva mai voluto andar fuori con essi. E sì che il povero veterano delle __Tapera di Don Venanzio__ e di porta San Pancrazio ne aveva una voglia spasimata! Ma anche Michele ci aveva il suo segreto, che non aveva confidato nemmeno alla sua bella padroncina. Egli non voleva che dalla sua compagnia nessuno argomentasse che quegli occhi neri, i quali guardavano a mala pena la strada, e quelle dita affusolate, chiuse in un guanto perlato, fossero quegli occhi e quelle dita che si affaticavano su certi ricami, ch'egli andava attorno a spacciare.

      Quella bella e virtuosa famigliola viveva in un modesto quartierino che abbiamo fatto conoscere fin da principio ai lettori, composto sul davanti di due camere da letto, separato da una terza che faceva uffizio di camera da lavoro e di sala da pranzo. La camera di Lorenzo metteva nella sala d'entrata; quella di Maria in un corridoio, per dove si andava alla cucina. Dalla cucina, poi, si saliva ad una cameretta, ricavata nella impalcatura del tetto, nella quale dormiva Michele; e da questa cameretta si usciva sul terrazzo, ch'era tutto ornato di pianticelle, da giardino e da orto, cura particolare del vecchio servitore ne' suoi ozii mattutini.

      Dall'altra parte della sala d'ingresso non c'era altro che l'uscio del salottino, malinconica stanza, che è sempre la stessa ed egualmente arredata in tutte le case di modesta fortuna, col suo canapè barocco, fasciato di lana a rabeschi, il tavolincino ovale poggiato su d'una gamba sola davanti al canapè; il piccolo tappeto da piedi tra l'uno e l'altro; quattro sedie a bracciuoli e una poltroncina; quattro battaglie litografate del '48, con la cornice dorata da tanto al palmo; le cortine di mussolina bianca traforata a fogliami, rialzate da due borchie d'ottone sui lati; finalmente un albo con venticinque ritratti, che il visitatore si crede in obbligo di sfogliare, osservando i mezzo svaniti gruppi di famiglia, la sposina in piedi, che posa una mano sulla spalla del marito comodamente seduto, i due amici in maniche di camicia, che fanno le viste di trincare alla salute della macchina fotografica, la balia con l'erede presuntivo sulle braccia, e via discorrendo.

      Nel salottino di


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