Raggio di Dio: Romanzo. Barrili Anton Giulio

Raggio di Dio: Romanzo - Barrili Anton Giulio


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a San Lucar ce ne avrò ancora per quattro o cinque capitoli; dopo di che prenderò a raccontare la nostra particolare odissea, dalla Giamaica ad Haiti, e da questa a quella ritornando, con tutto quello che c’è stato di mezzo. Sarà l’episodio nel poema eroico del nostro immortale cittadino; ma che episodio, siatemene voi testimoni! e ditemi ancora se per me non debba esser piuttosto il poema. Lo scriverò, mettendoci tutto il tempo che sarà necessario, e lo lascerò per ricordo ai Fieschi delle generazioni future.

      – Lo darete alle stampe, speriamo; – disse il Passano.

      – Questo poi no. Ai Fieschi, ho detto, e non ai fischi; – ribattè prontamente l’autore. – Dimmi tu ora, Giovanni dell’anima mia, se con questa allegrezza della Gioiosa Guardia, dove ho portato con me il premio maggiore che uomo potesse sperare dei patiti travagli, e con l’onesto desiderio di lasciarne memoria ai dolci nepoti, io possa risolvermi di lasciare questo mio nido di pace per le chiamate del colle di Carignano.

      – Che c’è? – disse Juana, turbata a quel cenno improvviso.

      – Leggi; – rispose il Fiesco, levando dal giustacuore la lettera che poche ore prima gli aveva consegnata Giovanni Passano.

      Poi, rivolgendosi al suo luogotenente, soggiunse:

      – Caro mio, non ti maravigliare. Per mia moglie e per mia madre non posso avere segreti. —

      Fior d’oro, intanto, aperto il foglio sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, a mezza voce leggeva. E noi leggiamo con lei la lettera dell’eccelso ed illustre Gian Aloise Fiesco:

A messer Bartholomeo Feisco nostro amato parente nec non viro excellentissimo

      “Havemo ricevute a suo tempo le doe lettere che Voi ne mandasti per lo cavallante Nicholin di Baceza et per lo ballestero Anthonio de Rì. Le quali ne hanno immensamente allegrato per quello che diti de la vostra bellissima sposa et de la nostra nobile cugina Bianchineta che Dio vardi. Ma similmente non intenderne che Voi vi adormentati in ocio de Gioyosa Guardia, come novo Hercule in Lydia, salva sempre la gratia de la celeste Fior d’auro; non parendone digno di cavallier come Voi et experimentato in tanti famosi incontri de terra e mar, di restar lontano et alieno da quelle imprese dove se guadagna gloria et roba per lustro d’el nome et potencia de la casata. Ergo è nostra mente che Voi vegniate quam primum poteritis a trovarci in Violato; che se noi facessimo come ne avressimo bon desiderio una seconda volta il viaggio, li maligni inimici del Gatto direbbono forsi che noi tememo per lo nostro capitanato de Levante; il che non sarìa savio da parte nostra. Etiam molte cose haverei da dirvi et tute di grande importancia per Voi et per noi che dite di amare, nel che volemo ben credervi. Onde Vi preghiamo non fate dimora. Il nostro Giovan di Passano el ve dirà a bocca quanto sia nostra voglia di vedervi accanto a noi per quel molto o poco che vorrete restare. E Iddio vi tegna sempre in la soa santa custodia.

      “Genue. Die V Martii A. D. 1506.

“Vostro parente et bon servidore“Gioan Aloyse.„

      Così la lettera dell’eccelso ed illustre capo della gente Fiesca. E Fior d’oro, com’ebbe finito di leggere, alzò la fronte a guardare il marito.

      – Andrai? – diss’ella. – Gian Aloise ti prega.

      – Andare è presto detto; – rispose Bartolomeo Fiesco. – Io non ci ho cuore, nè gambe. Scriverò; non sono oramai uno scrittore? Ma sì; – rispose egli, cercando di ribattere una obiezione che già vedeva balenare dagli occhi di Fior d’oro; – io sono famelico di oscurità, che è principio di pace, e quell’altro laggiù vuol tirarmi in luce di meriggio. Qui si sta bene: non per niente è Gioiosa Guardia. Anche nostra madre, che è vissuta tanti anni senza di me, ha bisogno di rifarsi della lunga solitudine. Di voi non parlo, Juana, che mi dareste un ceffone più forte di quelli con cui accarezzate le guance alle finte povere della vallata. Qui si sta bene, ripeto, e meglio non si starebbe in nessun altro luogo. Desideri la vita operosa, con tutte le sue ansie, con tutte le sue illusioni e le sue delusioni, chi non l’ha ancora vissuta. È giusto che ognuno s’istruisca, e paghi i maestri del suo. Quanto a me, ho imparato abbastanza; onde dirò col poeta, di cui non ricordo più il nome:

      Il porto è qui: speme e fortuna addio;

      Già m’ingannaste, or fate ad altri il gioco. —

      Ciò detto, fece un cenno a Polidamante. Ed era un cenno complesso, perchè Polidamante non istette dubbioso un momento, ma saltando lesto e scavalcando i due corpi distesi di Ovando e Bovadilla, venne ad abbrancare il fiasco del vino delle Cinque Terre per ricolmargliene un calice. Messer Bartolomeo ringraziò il coppiere con gli occhi, e tracannò il vino d’un fiato.

      Giovanni Passano taceva; e si capiva che tacesse, essendo stato egli il portatore della lettera di Gian Aloise, e incaricato al bisogno di confortare con nuove ragioni a bocca l’invito che recava per iscritto. Ma il capitano Fiesco aveva dalla sua frate Alessandro e don Garcìa, che gli davano ragione due volte, approvandolo, e bevendo da capo con lui. La contessa Juana, per contro, era rimasta pensosa; e ciò non gli andava, parendogli di non esser sicuro della vittoria, se non gliela confermava il giudizio di Fior d’oro.

      – Non vi piace la mia risoluzione? – diss’egli.

      – Non dico questo, nè lo penso; – rispose la contessa. – Ma riconosco che ci sono le occasioni, pur troppo, in cui non possiamo fare quel che ci torna meglio.

      – Oh, per questo, vedrai che lo potrò; – ribattè egli animandosi. – Non sono uno schiavo, io; e Gian Aloise non iscrive da padrone. Diciamo piuttosto ch’egli tratta da re. Quando un re scrive “vi vedrò volentieri„, il cortigiano accorre senz’altro. Io non sono un cortigiano, e non ho ambizione di uffici illustri o lucrosi. E li merito, poi? Penso di no, ed ho il diritto di esser modesto, mi pare. Infine, che cos’è che si pretende da me? Sono un uomo di vaglia. Come lo sanno? da che lo argomentano? Sono stato navigatore e soldato per passatempo, come prima ero stato scolaro a Pavia, e laureato in medicina e filosofia. Quel che sono mi son fatto da me, e me lo spendo a mio modo. Vengo meno con ciò agli obblighi del mio sangue? No. Queste terre me le hanno lasciate i miei maggiori; le tengo e le difendo; difendendole, son utile ancora ai Fieschi confinanti con me. Questo è il mio scoglio, e ci fo il mestiere dell’ostrica. Quando mai si è preteso che l’ostrica lasciasse di far l’ostrica, per fare il pesce spada? —

      Gli pareva d’aver vinto, con questo ragionamento, e che nessuno gli potesse rispondere. Ma in quel punto Ovando e Bovadilla levarono il muso e rizzarono gli orecchi, brontolando verso l’uscio:

      – Che c’è? – disse il Fiesco. – Hanno sentito qualche cosa d’insolito?

      – Rumore nel cortile; – rispose Polidamante. – Sembra uno scalpitìo di cavalli.

      – Visite a quest’ora? – ripigliò messer Bartolomeo. – Vedrete che sarà Filippino.

      – Ma che! – disse allora Madonna Bianchinetta. – Sono appena tre giorni che l’abbiamo veduto.

      – E tre giorni sono qualche volta un secolo; – ribattè egli ostinato. – Del resto, chiunque sia, non istarà molto a farsi vedere. —

      Comparve indi a poco sull’ingresso della cantinata un famiglio, che tirandosi da un lato della soglia, solennemente parlò:

      – Magnifico signore, è qui messer Filippino.

      – Ah, Filippino!.. Ma se lo dicevo io!.. Questo qua veramente mi ha preso a proteggere. —

      Fior d’oro si mosse verso il marito, cercando di chetarlo collo sguardo.

      – Già… ecco… – balbettò egli allora. – Volevo dire che m’ha preso a voler bene. E chi ci vuol bene, quando ne sia il bisogno, ci protegge. Andiamogli incontro; sarà il miglior modo di mostrargli gratitudine per tanta bontà. —

      Prima che il capitano Fiesco fosse in fondo alla sala, compariva messer Filippino sull’uscio; Filippino il bello; Filippino il biondo, come lo diceva spesso e volentieri il padrone di casa. Un bel giovane infatti, e d’un bel biondo di stoppa, come la natura benigna


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