Raggio di Dio: Romanzo. Barrili Anton Giulio

Raggio di Dio: Romanzo - Barrili Anton Giulio


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dond’era sparita un’ora prima, riappariva Fior d’oro.

      – Avete finito di far conti? – diss’ella.

      – E da un pezzo; – rispose Giovanni Passano.

      – Allora, eccomi qua. Vorrete accettare un rinfresco, per aguzzar l’appetito? Polidamante, i bicchieri e il vin di Cipro. —

      Polidamante, che era comparso allora nel vano dell’uscio, corse ad eseguire i comandi. Due minuti dopo, era in giardino col vin di Cipro e il vassoio.

      – Dategli da bere, Juana; – disse il conte Fiesco alla moglie. – Ma in verità non lo merita. Sapete che ha vuotate tutte le cantine che ha incontrate in viaggio, da San Martino d’Albaro al ponte della Maddalena? E certo, con lo stomaco scavato da tanto bere, egli ha più fame che sete.

      – È anche pronta la cena; – rispose Fior d’oro; – ed egli non avrà da penar molto. Genero, – soggiunse ella, accostando il calice a quello del Passano, – siate il benvenuto coi vostri scartafacci e colle vostre belle notizie. Beviamo ora alla salute della nostra Bianchina. —

      Tutto bene, sì; ma le belle notizie il Passano non le poteva mandar giù, dopo averle portate, e conosciute molto noiose.

      – Ed ora, – diceva egli tra sè, mentre mandava giù più facilmente il suo vin di Cipro, – come la prenderà Fior d’oro, quando saprà che si vuol Damiano a Genova? Basta, la cosa non mi riguarda; ambasciator non porta pena. —

      Capitolo III.

      I commentarii di Cesare

      La cena era imbandita nella gran caminata del castello, dove il nostro Giovanni Passano ebbe il piacere di far riverenza a madonna Bianchinetta Fiesca, la veneranda madre del suo capitano. Il giovinotto la chiamava madrina, per aver ella tenuta la vezzosa Higuamota al fonte battesimale. La nobil signora vide assai volentieri il marito della cara figlioccia, e lo chiamò a dirittura figliuolo. Ha di queste delicatezze la vecchiaia, e pare che le derivi dal cielo, a cui è già tanto vicina.

      Si ragionò di molte cose, a mensa, mutando gli argomenti come le portate. Così venne “in tavola„ l’eccelso Gian Aloise, con tutte le sue vaste ambizioni, ch’erano poi la gloria e l’onore della illustre casata dei Fieschi; una delle prime signorili d’Italia, e già considerata come principesca, tanto che non si faceva più lega o trattato di pace tra il re Cristianissimo e gli stati Italiani, che non vi fosse inclusa quella grande famiglia, alla pari con essi. Ed anche, volgendo il discorso qua e là, non fu dimenticata una più potente signoria, che per verità non era argomento da tavola; vogliamo dire la peste, oramai da tre anni vagante in Liguria, come nelle regioni contermini, ma che a Genova non aveva potuto menare gran guasto, per le buone provvisioni del governo. Strano, per altro, che ne avesse avuto a pagar le pene il provveditore, che era messer Giacomo Fouchesolts, luogotenente del regio governatore monsignor Filippo di Cleves. Ma oramai da un anno il povero luogotenente era morto, succedendogli, come sappiamo, il Roccabertino; sicchè, non c’era più molto da dirne, e neanche molto di un morbo al quale i popoli d’Europa s’erano avvezzati in que’ tempi, come noi a tutte le specie di nemici invisibili, che coi nomi svariati di microbii, bacilli, micrococchi e germi patógeni, dovrebbero poi essere l’attenuata ma non estenuata discendenza dei persecutori di quattro o cinque secoli fa.

      – Parliamo di cose allegre; – disse ad un certo punto il Passano. – Ne ho sentito una, che mi ha riempito di giubilo. Voi scrivete i vostri commentarii, capitano?

      – Chi te lo ha detto? Sei arrivato ora, e già sai…

      – Non ve ne maravigliate, principale. Per giunger quassù, naturalmente, dovevo passar di laggiù.

      – Tu parli come un libro stampato; – disse Bartolomeo Fiesco. – Alla mia volta dovevo immaginare che don Garcìa e frate Alessandro non volessero aver segreti per te. Sono essi infatti i miei due pazienti uditori serali. Che vuoi? bisogna ammazzare il tempo. Io scrivo di giorno, e leggo di sera. Oggi appunto ci avevo un paio di capitoli finiti. Ma ora che sei capitato tu coi tuoi scartafacci, tanto più importanti dei miei…

      – Li avete letti, i miei; letti ed approvati; – interruppe il Passano. – Non vogliate defraudarmi della parte mia. Diteglielo voi, madrina; – soggiunse il giovinotto, vedendo che il principale nicchiava; – diteglielo voi, che ha da leggere.

      – Mio figlio mi fa piacere, se legge; – rispose madonna Bianchinetta. – Quando legge dei suoi viaggi, mi par di viaggiare con lui.

      – E che bel viaggiare! – aggiunse il Passano. – Se scrive come parla, ha da essere un racconto gustoso.

      – Voi volete lodarmi, Giovanni, e, sia detto con vostra buona pace, proferite una sciocchezza insigne; – sentenziò gravemente Bartolomeo Fiesco. – Imparate, giovinotto di poche lettere, che lo scrittore italiano si guarda bene di scrivere come parla, avendo alto il rispetto delle vergini muse, dei lettori di buon giudizio, e di sè. Quando parla, apre la bocca, e dà il volo a tutti i passerotti che gli girano per l’anima; quando scrive, li mette tutti quanti sotto chiave, indossa il lucco, tempera la sua penna d’oca, e va a cercare nel fondo del calamaio tutte le sentenze più gravi, tutti i più ornati periodi. Prosa robusta vuol essere. Noi discendiamo dai Romani, che diamine! e Cicerone, maestro in materia, vi mostrerà coll’esempio che altro è scrivere un bigliettino al suo segretario, altro è scrivere a Pomponio Attico; altro scrivere a Pomponio, ed altro assalir Catilina, o Verre, o Marc’Antonio. Ma basta; voi mi sentirete, o giovane inesperto, mi sentirete scrittore; e se non dormirete in piedi, o seduto, l’avrò per un atto di valor singolare, da mettere accanto agli altri, per cui vi ho sempre stimato ed amato. Dixi.

      E qui, naturalmente, una bella risata, di quelle che sapeva rider Damiano. La cena era finita, e i famigli erano venuti a sparecchiare, mentre i padroni di casa e il loro ospite uscivano a far due passi in giardino. Quando rientrarono, la gran tavola era rischiarata da tre grandi lucerne d’argento; il lusso d’allora, in materia d’illuminazione. Il numero dei lumi e la preziosità del metallo compensavano la poca vivezza della luce. E non solo c’erano lumi in tavola, ma anche ciò che può far perdere il lume del raziocinio a chi non sappia usarne con discrezione; vogliamo dire certe bocce vistose di vino delle Cinque Terre, coi calici di cristallo in grandi vassoi d’argento. Furono allora mandati a chiamare i due “uditori pazienti„ che per verità erano impazienti d’aspettar la chiamata, tanto furono pronti ad accorrere.

      Offriva un bel quadro, la caminata di Gioiosa Guardia, in quella sera di marzo, al lume delle tre grandi lucerne d’argento, i cui dodici lucignoli, diradando le ombre senza cacciarle del tutto, lasciavano intravvedere lungo le alte pareti i ritratti di quattro o cinque generazioni dei Fieschi, soldati e marinai, ambasciatori, vescovi, cardinali e papi. Ma lo sguardo era maggiormente attratto verso il camino, onde la sala prendeva il suo nome di caminata; gran camino di pietra nera scolpita, sul cui alto stipite sorgeva lo stemma dei Fieschi, col suo elmo di fronte, carico di svolazzi e fogliami, donde apparivano affrontati il gatto sedente e il basilisco nascente. In quella mezza luce non si poteva leggere il motto: sedens ago, scolpito in una fascia tra l’elmo e lo scudo; e questo solamente si ricorda per amor d’esattezza. Davanti al camino, un po’ lontano dal capo della tavola, sull’alto scanno comitale sedeva madonna Bianchinetta, tutta vestita d’ormesino nero, con la sua cuffiettina della medesima stoffa marezzata, donde sbucavano sulle tempie le ciocche dei capelli bianchi come neve, tanto belli a vedersi nelle case che serbano il culto della dolce famiglia. Alla destra di lei stava la contessa Juana, ma seduta più in basso, in modo da potere ad ogni tanto piegar la testa sul bracciuolo dello scanno, e i suoi capelli nerissimi alle carezze della vecchia signora. I detrattori delle suocere avrebbero dovuto ritrovarsi un po’ là, per sentirsi morire l’eterna celia sul labbro.

      Presso il capo della tavola, o meglio, tra questo e la contessa Juana, e avendo alla sua destra il Passano, era venuto a sedersi Bartolomeo Fiesco, pronto a squadernare i suoi gran fogli di carta. Dall’altro lato sedeva frate Alessandro, e presso a lui don Garcìa, con Polidamante; il quale per verità non si poteva dire che sedesse, avendo addosso l’argento vivo, ed ora per una cosa ora per l’altra cercando sempre di muoversi. In mezzo al semicerchio


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