Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II. Botta Carlo
questi omicidj ed assassinamenti, di cui con tanta ragione si querelava, non già solamente sul territorio Genovese accadevano, ma ancora, e molto più sul territorio Piemontese; imperciocchè i villici di quei confini tra Novi ed Alessandria, gente allora pur troppo solita al gettarsi alla strada, erano quelli massimamente, che, stando agli agguati, uccidevano i Francesi isolati: nel che intendevano bensì al rubare, ma molto più ancora al saziare nel sangue Francese l'odio che contro quella nazione avevano concetto. Eppure non fece il generale di Francia che un leggiere risentimento, e nissuna minaccia contro il re di Sardegna. La verità era, che nè il governo Piemontese, nè il Genovese erano rei di sì brutti eccessi, ma bensì la sfrenatezza di costume, che porta con se la guerra tanto nei vinti quanto nei vincitori, e l'odio di quei popoli contro il nome Francese. L'insolenza poi di accusare tutto un governo, composto di persone dabbene e temperato per tanti secoli, di prezzolare ed incitar i ladri ed assassini, non poteva procedere se non da un uomo sfrenato.
A queste minacce soldatesche succedevano le prepotenze Parigine. Comandava il direttorio a Buonaparte, s'impadronisse o di queto, se i Genovesi consentissero, o per forza, se ricusassero, di Gavi a fine di assicurare l'esercito alle spalle, e di conservarsi la strada della Bocchetta aperta da Genova a Tortona: col medesimo pensiero già si era impadronito della fortezza di Vado; il che quale rispetto sia per la neutralità, ciascuno potrà giudicare. Poscia più oltre procedendo, voleva il direttorio, che come prima avesse l'esercito repubblicano occupato il porto di Livorno, occupasse anche la Spezia, ed ivi quanti bastimenti appartenessero a potentati nemici alla Francia, mettesse in preda. Nè contento a questo, non dimenticato il denaro, nè risguardo alcuno avendo che il fatto della Modesta fosse accaduto non solamente senza saputa, ma ancora con sorpresa del senato di Genova, nè che già fosse stato composto in quattro milioni col governo di Francia, nè che la fermezza del senato nel contrastare alla prepotenza Inglese per serbar la neutralità fosse stata non solo vera, ma anche lodata dal consesso nazionale di Parigi, nè che finalmente molte fossero le molestie che per la serbata neutralità avevano ricevuto i Genovesi dagl'Inglesi, e tuttavìa ricevevano dai Corsi, comandava a Buonaparte, che domandasse vendetta, e milioni di contanti per la straziata Modesta, ed operasse che coloro, che si erano mescolati in tale fatto, fossero come traditori della patria dannati: oltre a ciò voleva e comandava, che si confiscassero e si dessero in mano della repubblica tutte le proprietà pubbliche appartenenti ai nemici, e sotto sicurtà di Genova si sequestrassero tutte quelle che a sudditi di potentati nemici spettassero; cacciasse Genova da' suoi territorj tutti i fuorusciti Francesi; fornisse bestie da tiro e da soma, carriaggi e viveri, e si dessero in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace generale.
Questi comandamenti, che un governo civile avrebbe avuto vergogna di fare ad una potenza del tutto serva, si era risoluto il direttorio di fare ad uno stato, di cui protestava voler riconoscere e rispettare l'indipendenza e la neutralità.
Passando ora da Genova a quella primogenita, come la chiamavano, repubblica di Venezia, siccome cresceva nei vincitori con le vittorie la cupidigia dell'oro e del dominare, incominciarono a dire, che volevano che fosse trattata non da amica, ma solamente da neutrale, sotto colore di certi pretesti vecchi, che già sussistevano, poichè non era cambiata la condizione delle cose fra le due repubbliche, quando nell'ingresso del nobile Querini se gli fecero tante carezze. Tra questi pretesti il primo e principale era il passo dato ai Tedeschi pei territorj Veneziani. Poi prosperando vieppiù la fortuna delle armi repubblicane in Italia, insorse il direttorio con volere che Verona desse grossa somma di denaro in presto, a motivo che ella aveva accolto nelle sue mura Luigi XVIII, convertendo per tal modo in colpa un ufficio di pietà. Finalmente, cacciato del tutto Beaulieu oltre Mincio, voleva ed imperiosamente comandava, che Venezia desse in presto dodici milioni, e si voltasse in ricompensa questa detta alla repubblica Batava, che era debitrice di questa somma, a norma dei freschi trattati, alla Francia; il che era un farsi far presto per forza, e pagar a modo suo. Voleva oltre a ciò, e comandava, che si consegnassero alla repubblica tutti i fondi dei potentati nemici che fossero in Venezia, principalmente quelli che spettavano personalmente al re d'Inghilterra, ed inoltre si dessero alla Francia tutte le navi sì grosse che sottili, ed altre proprietà di nemici che stanziassero nel porti Veneziani. Quest'erano le domande fatte dal direttorio alla repubblica Veneta, delle quali direi, ch'io non so s'egli desiderasse che fossero piuttosto negate che concedute, se non sapessi che neanco il concederle sarebbe stato salute per Venezia.
Quanto al papa, se volesse trattar d'accordo, si esigesse da lui, imponeva il direttorio, per primo patto, ordinasse subito preci pubbliche per la prosperità e la felicità della repubblica; nel che faceva il direttorio gran fondamento per l'autorità che aveva la sedia apostolica sulla opinione dei popoli sì Francesi, che Italiani. Si venne quinci in sul toccar il solito tasto del denaro, intimando desse venticinque milioni. Si comandasse al tempo medesimo al re di Napoli, che se pace volesse, badasse a cacciar da' suoi stati gl'Inglesi e gli altri nemici della repubblica, mettesse in poter suo tutte le navi loro che nei Napolitani porti fossero sorte, e loro vietasse l'entrarvi, nemmeno con bandiera neutrale. Sapesse poi il re, che col mantenimento dei patti ne andava la salute del regno.
Questi superbi comandamenti, che potevano bensì fare i potentati Italiani amici in sembiante di Francia, ma non veri, perchè mescolavano l'oltraggio alla forza, gli rendevano disprezzabili agli occhi del mondo, e davano timore di danni ancor maggiori, quando, distrutta intieramente la potenza dell'Austria, le armi repubblicane avessero inondato tutta l'Italia.
Vengo ora ad alcuni potentati minori, che non avevano fatto guerra con le armi alla Francia, perchè non ne avevano, e nemmeno avevano fatto pace, perchè la Francia essendo lontana e l'Austria vicina, temevano di ricevere o ingiuria o danno dai Tedeschi. Non ostante correndo la fama che avessero ricchezze, coloro che reggevano le faccende della repubblica sempre pronti ad abbracciare ogni apparente colore per involare quel d'altrui, avevano a loro volto le proprie cupidità. In conformità di questo voleva il repubblicano governo, che si scuotessero bene i duchi di Parma e di Modena, ma il primo meno rigidamente del secondo per rispetto del re di Spagna, col quale era congiunto di sangue. Quanto al duca di Modena, intenzione dei repubblicani era, che si aggravasse la mano sopra di lui per fargli sborsar denaro in copia, perchè aveva voce di averne, e perchè, avendo sposata l'unica sua figliuola ad un principe Austriaco, si presumeva, o si supponeva, che dipendesse molto dall'Austria. Lallemand, ministro di Francia a Venezia (a questo era serbata dai cieli la sua canuta testa) esortava, che si conculcasse, si pugnesse, si travagliasse per ogni guisa il Modenese duca a fargli dar denaro, perchè ne aveva molto ed era avaro; e più si scuoterebbe, e più contanti darebbe. I frutti della lunga parsimonia di un principe non solamente ordinato allo spendere, buono, e previdente, ma ancora non nemico alla Francia nè per uso, nè per costume, nè per massima, erano destinati a cadere in mano di gente capace a dissipargli in poco d'ora.
Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva all'Italia dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto la principal sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse a quelle dolci parole di umanità e di libertà, che dai repubblicani di quei tempi si andavano fino a sazietà spargendo, ordinava il direttorio, a petizione di Buonaparte, che si comandasse nei patti d'accordo ai principi vinti, dessero in poter dei vincitori, perchè nel museo di Parigi fossero condotti, quadri, statue, testi a penna, ed altri capi dell'esimie arti, usciti di mano ai più famosi artisti del mondo, affermando, esser venuto il tempo, in cui la sede loro doveva passare da Italia a Francia, e servire d'ornamento alla libertà. Brutta certamente ed odiosa opera fu questa dello avere spogliato l'Italia di tanti preziosi ornamenti; che se il rapire l'oro, l'argento e le sostanze dei campi era uso di guerra, non dirò comportabile, ma utile a nutrire i conquistatori, l'aggiungere alla preda statue e quadri, non poteva essere se non atto di superbia eccessiva, e disegno di vieppiù avvilire i vinti. Rispettarono i Francesi ai tempi andati nelle guerre loro in Italia questi frutti eccellenti dell'umano ingegno: Francesco primo re accarezzava con munificenza veramente reale gli operai, non rapiva le opere. Gli rispettarono nei tempi andati, e gli rispettarono nei moderni i Tedeschi. I repubblicani che allora reggevano la Francia, e che non avevano altro in bocca che parole di umanità, di civiltà, di rispetto verso le proprietà, d'amicizia verso i popoli, fecero quello, che uomini meno parlatori e meno ostentatori di dolci discorsi non avevano fatto. Ma lo spoglio piaceva loro, ad alcuni per l'amore della gloria, ad altri perchè potessero essere sotto gli occhi modelli tanto perfetti di natura abbellita dall'arte;