Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II. Botta Carlo

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - Botta Carlo


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il piatto da fornirsi ai generali, ai commissarj, ai comandanti, agli uffiziali talmente il costringevano, che non era più padrone di se medesimo, stanziava una imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi Milanesi. Non parlo dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare, consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè a grandi e replicate vittorie era congiunta una opinione politica ardentissima, e molto diversa da quella dei popoli, fra i quali egli vivea. Dico questo generalmente, e massime dei primi, perchè degli uffiziali subalterni, molti o per gentile educazione, o per bontà di natura in tale guisa si portavano e dentro e fuori delle case del popolo conquistato, che si conciliavano la benevolenza di ognuno, e si era, per consuonanza, talmente addomesticata la natura di questi con quella dei Milanesi, che aveva superato l'impressione prodotta dal terrore delle armi, e dalle molestie di coloro, che in vece di servir di freno, come era richiesto ai gradi loro, con l'esempio e coi comandamenti, servivano di sprone alle male opere che si commettevano. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli erano le tolte sforzate di generi, che per uso dei soldati o proprio alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villarecci luoghi, liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva ed a chi non aveva, e così agli amici, come ai nemici del nome Francese. Aggiungevansi le minacce e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire l'uomo, che i cattivi fatti. Le quali cose molto imprudentemente si facevano: perchè oltre all'indegnazione dei popoli si consumava malamente in pochi giorni quello, che avrebbe potuto bastare per molti mesi, ed un paese fioritissimo inclinava rapidamente ad una estrema squallidezza. Ciò rendeva i Francesi odiosi, ma più ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi, o per le opinioni parteggiavano pei Francesi. Nè il popolo discerneva i buoni dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che tutti ajutavano l'impresa di una gente, che venuta per forza nel loro paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Certamente gridavano, e più assai che non sarebbe stato conveniente, i patriotti Italiani il nome di libertà; ma vana cosa era sperare, che nell'animo dei popoli consumati, ed offesi dall'insolenza militare prevalesse un nome astratto sopra un male pur troppo reale: detestavano una libertà che si appresentava loro mista d'improperj, e di ruberìe. Adunque lo sdegno era grande, la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli. A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca, e gli ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il dominio Francese in Italia; che quella terra era pur tomba ai Francesi, che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le loro cacciate, o gli eccidj; nè permetterebbe Iddio, che gente nemica al nome suo stanziasse lungamente in quell'Italia, sede propria del suo santo vicario; già sventolar di nuovo le insegne d'Austria tra l'Adda ed il Ticino, già calar grossi imperiali eserciti dalle Tirolesi rupi, e già vacillare le armi in mano all'insolente Francese. Ora esser tempo di armarsi, ora di sorgere a difensione di quanto ha l'uomo di più sacro, di più caro e di più reverendo; gradire Iddio, e premiar coloro che hanno la patria più che la vita a cuore: nè doversi dubitar dell'evento, perchè già le repubblicane insegne fuggivano cacciate dalle imperiali aquile. Cresceva il mal contento, se ne aspettavano effetti funestissimi. Portò la fama in quei tempi, che principal autore di queste insinuazioni fosse il conte di Gambarana, uomo attivo e molto avverso ai Francesi. Andava egli seminando e le voci suddette, e di più, che i Francesi volevano far per forza una leva di gioventù Lombarda per mandarla, con le genti Francesi incorporandola, alla guerra contro l'imperatore. Quando gli animi sono sollevati, è pronta la credenza ad ogni cosa: e per quanto i magistrati eletti, e gli altri aderenti dei Francesi si sforzassero di persuadere ai popoli il contrario, non dimettevano punto la concetta opinione, anzi vieppiù vi si confermavano. In mezzo a tutti questi mali umori successe in Milano un fatto veramente enorme che gli fece traboccare e crescere in grandissima inondazione. Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano o gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti, e gioje di grandissimo valore. S'aggiungevano, come si usa, capi di minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano, secondo l'uso d'Italia, a doti di fanciulle povere, e nel monte dai parenti depositate si serbavano al tempo dei maritaggi loro. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà, non solo perchè era segno di fede pubblica, che sempre incontaminata si dee serbare, ma ancora perchè le cose depositate, la maggior parte, appartenevano a persone o per condizione o per accidente bisognose.

      Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel monte, e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio, che là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo. Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire, che non si fosse portato più rispetto alle proprietà dei poveri, che a quelle dei ricchi; il che in parte era anche vero. Le quali cose giunte all'insolenza militare, allo strazio che si faceva delle campagne, alle improntitudini dei patriotti, dei quali chi predicava una cosa che il popolo non intendeva, e chi dava materia a credere con l'esempio che la libertà fosse il mal costume, partorirono una indegnazione tale, che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di far un moto contro i Francesi. Nè fu la città stessa di Milano esente da questa turbazione; perciocchè facendo i repubblicani non so quale allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il quale frenando l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio. Ma le cose non passarono sì di queto nei contorni di Milano, massimamente verso Porta Ticinese; perchè viaggiando e Francesi e patriotti Italiani, o soli o con poca compagnìa per quelle campagne, e non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservargli, furono da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano uccisioni ancor maggiori, ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In Binasco principalmente l'ardore contro i Francesi, e contro i giacobini, come gli chiamavano, era giunto agli estremi: e credendo i Binaschesi, con tutti coloro che dai vicini luoghi erano concorsi in quella terra posta sulla strada maestra a mezzo cammino fra Milano e Pavia, che ogni più crudele fatto fosse lecito contro chi spogliava i monti di pietà, e secondo l'opinione loro conculcava la religione, ammazzavano quanti Francesi o Italiani partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso, molti, anzi una squadra non piccola di Francesi, furono barbaramente trucidati da quella gente, in cui più poteva un intemperante furore, che un desiderio giusto di difendere la patria contro i forestieri, e contro chi gli favoriva.

      A questo moto dei Binaschesi, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi dei Tedeschi, che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia, essendo ciascuno armato di fucili vecchi, di pistole, di sciabole, di scuri, di bastoni, o di qualunque altra arma che il caso, od il furore avesse posto loro innanzi. Chi poi non accorreva per la speranza dei soccorsi Tedeschi, che non pochi sapevano esser vana, il facevano per la voce che si era levata fra la gente tumultuaria, che i Francesi si avvicinassero per mettere a sacco Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero della libertà, che dagli amatori del nome Francese si era fatto sulla piazza, con atterrare anche nel fatto medesimo una statua equestre di bronzo, che si credeva antica e di un imperator Romano, si erano sollevati la mattina dei ventitre maggio, e correvano la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza. Fra le grida, lo schiamazzo e le risa della sfrenata moltitudine, i fanciulli intorno all'albero affollatisi, facevano pruova d'atterrarlo. Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le turbe sollevate: suonavano precipitosamente in Pavia le campane a martello, rispondevano con grandissimo terrore di tutti quelle della campagna. Nascondevansi i patriotti nelle parti più segrete delle case, perchè il popolo gli chiamava a morte: pure più temperato in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini quieti serravano a furia le porte, ed attendevano trepidamente a quello che in un caso tanto pericoloso avesse a portar la fortuna per salute, o per esterminio. I soldati di Francia segregati erano presi: i rimanenti, non erano più di quattrocento fanti, male in arnese, la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoveravano nel castello, dove


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