Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II. Botta Carlo

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - Botta Carlo


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avendo a combattere fra di loro, avrebbero l'una e l'altra per primo pensiero il procacciarsi i proprj vantaggi, anche a pregiudizio della neutralità Veneziana; perciocchè la salute propria, e la necessità di vincere sono più forti del rispetto, che si dee portare alla dignità ed ai diritti altrui.

      Non avevano pretermesso i pubblici rappresentanti di Brescia e di Bergamo, principalmente quest'ultimo, cittadino zelantissimo, d'informare diligentemente il governo di quanto accadeva sui confini; e del pericolo che ogni giorno si faceva più grave: ma le instanze loro restarono senza frutto, perchè ed il tempo mancava, ed i partigiani della neutralità disarmata tuttavia prevalevano nelle consulte della repubblica. Ma stringendo ora il tempo, e desiderando il senato, che in un caso di tanta, anzi di totale importanza, le cose di terraferma fossero rette con unità di consiglj aveva tratto a provveditor generale in essa Niccolò Foscarini, stato ambasciadore a Costantinopoli, uomo amatore della sua patria e di sana mente, ma di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso; del che diè tosto segno, perchè nell'ingresso medesimo della sua carica già si mostrava pieno di spaventi, e di pensieri sinistri. Sperava il senato che Foscarini avrebbe potuto con la sua destrezza intrattenere convenevolmente i due capi nemici, e dimostrando loro la sincerità della repubblica, ottenere che inferissero il minor male che possibil fosse, a quelle terre innocenti. Confidava altresì che i popoli della terraferma, vedendo in una persona sola un tanto grado e tanta autorità, si confermerebbero vieppiù nella divozion loro verso la repubblica; perchè il mandare un provveditor a posta, affinchè vigilasse sulla salute loro, era testimonio che la repubblica non gli abbandonava. Diessi, come moderatore a Foscarini, il conte Rocco San-Fermo, con quale prudenza non si vede, perchè San-Fermo parteggiava piuttosto pei Francesi, ed era in cattivo concetto presso ai Tedeschi per essere stata la sua casa in Basilea il ritrovo comune dei ministri di Prussia, di Spagna e di Francia, quando negoziavano fra di loro la pace. Avuto così grave mandato, se ne veniva il provveditor generale a fermar le sue stanze in Verona, città grossa, posta sul fiume Adige, e vicina ai luoghi dove aveva primieramente a scoppiare quel nembo di guerra. L'accoglievano i Veronesi molto volentieri, e gli fecero allegrezze, confidando che la sua presenza avesse pure ad operar qualche frutto a salute loro. Ma non conoscevano i tempi: il senato medesimo non gli conosceva: perchè lo sperare in tanta sfrenatezza di principj politici, ed in un affare in cui dalle due parti vi andava tutta la fortuna dello stato, che si sarebbe portato rispetto al retto ed all'onesto, e che un magistrato privo di armi potesse fare alcun frutto, era fondamento del tutto vano. Bene il predicava il procurator Pesaro, armi chiedendo ed armati; ma impedirono così salutifero consiglio le fascinazioni della parte avversaria, ed abbandonossi inerme la repubblica nella fede di coloro, che non ne avevano.

      Ripigliando ora il filo delle imprese di Buonaparte, era suo pensiero, per rompere le difese del Mincio, di dar sospetto a Beaulieu, ch'egli volesse, correndo per la occidentale sponda del lago di Garda, occupare Riva, e quindi gettarsi a Roveredo, terra posta sulla strada, che dall'Italia porta al Tirolo. Perlochè, passato l'Olio ed il Mela, poneva gli alloggiamenti in Brescia, donde ad arte faceva correre le sue genti più leggieri verso Desenzano; anzi procedendo più oltre, mandava una grossa banda, condotta da Rusca, fino a Salò, terra a mezzo lago sulla sua destra sponda. Per nutrire vieppiù nel nemico la falsa credenza, che sua sola intenzione fosse di sprolungarsi sulla sinistra per correre verso le parti superiori del lago col fine suddetto di mozzar la strada agli Austriaci per al Tirolo, aveva tirato sul centro e sulla destra le sue genti indietro per guisa, che in vece di star minacciose sulla destra del Mincio, si erano fermate alcune miglia lontano dal fiume nelle terre di Montechiaro, Solfarino, Gafoldo e Mariana, e le teneva quiete negli alloggiamenti loro.

      Era Brescia possessione dei Veneziani. Però volendo Buonaparte giustificare questo atto del tutto ostile verso la repubblica, perchè gli Austriaci avevano passato pei territorj Veneti, ma non occupato le terre grosse e murate, mandava fuori da Brescia il dì ventinove di maggio un bando, promettitore, secondo il solito, di quello che non aveva in animo di attenere, avere, diceva, l'esercito Francese superato ostacoli difficilissimi per venire a torre il grave giogo dell'Austria superba dal collo della più bella parte d'Europa: vittoria, e giustizia congiunte avere compito il suo intento; le reliquie del nemico essersi ritratte oltre Mincio; passare, a fine di seguitarle, i Francesi per le terre della Veneziana repubblica; ma non essere per dimenticare l'antica amicizia, da cui erano le due repubbliche congiunte; non dovere il popolo avere timore alcuno; rispetterebbesi la religione, il governo, i costumi, le proprietà; pagherebbesi in contanti quanto fosse richiesto; pregare i magistrati ed i preti, informassero di questi suoi sentimenti i popoli, affinchè una confidenza reciproca confermasse quell'amicizia, che da sì lungo tempo aveva congiunto due nazioni fedeli nell'onore, fedeli nella vittoria. A questo modo Buonaparte, il dì ventinove di maggio del novantasei, chiamava amica di Francia quella repubblica, che il direttorio, e Buonaparte medesimo già avevano accusato, come di gran reità, dello aver dato ricovero al conte di Lilla; qualificava fedele nell'onore quella nazione, che già avevano accagionato di aver dato il passo alle genti Tedesche. La forza della verità operava da un lato, la cupidigia del rapire e del distruggere dall'altro.

      Come prima Beaulieu ebbe avviso, avere i repubblicani occupato Brescia, valendosi del pretesto, pose presidio in Peschiera, fortezza Veneziana situata all'origine dell'emissario del lago di Garda, e che altro non è, se non il fiume Mincio. Temeva, che Buonaparte non portasse più rispetto a Peschiera che a Brescia, ed era la prima, se fosse stata bene munita, principale difesa del passo del fiume. Era Peschiera piazza forte, ma il senato, o, per meglio dire, i Savj, persistendo in quella loro eccessiva neutralità, nè sospettando di un turbine tanto impetuoso, l'avevano lasciata senza difesa. Solo sessanta invalidi la presidiavano: aveva bene ottanta cannoni, ma senza carretti, e per munizioni, cento libbre di polvere, ma cattiva; fortificazioni in rovina, ponti levatoj impossibili a levarsi, difese esteriori senza palizzate, strada coperta ingombra d'alberi, non una bandiera da rizzarsi sulle mura per far segno a qual sovrano la fortezza appartenesse. Bene aveva il colonnello Carrera, comandante, rappresentato al provveditor generale la condizione della piazza, domandato soldati, armi e munizioni, avvertito il pericolo dell'indifesa fortezza in tanta vicinanza di soldati nemici. Ma Foscarini, che aveva più paura del difendersi, che del non difendersi, aveva trasandato le domande del comandante. La quale eccessiva continenza gli fu poi acerbamente rimproverata da coloro, in favor dei quali ei l'aveva usata, perciocchè Buonaparte affermava, che se il provveditor generale avesse mandato solamente due mila soldati da Verona a Peschiera, sarebbe stata la piazza preservata; il che era vero: ma se Foscarini non l'aveva fatto, ciò era stato per non offendere il capitano Francese, non per compiacere al capitano Tedesco.

      Occupatasi Peschiera dagli Alemanni, vi fecero a molta fretta quelle fortificazioni che per la brevità del tempo poterono, rassettando i bastioni e le altre difese cadute in rovina per la vetustà. Intanto Buonaparte, sicuro di aver ingannato il nemico con dargli concetto che volesse spingersi verso la punta superiore del lago, si apparecchiava a mettere ad esecuzione il suo disegno. Era questo di sforzare il passo del Mincio a Borghetto. Non era stato il generale Austriaco senza sospetto, quantunque per le dimostrazioni del suo avversario avesse ritirato parte delle sue genti ai luoghi superiori, che il vero pensiero di Buonaparte fosse di assaltarlo a Borghetto. Però aveva munito il ponte con le opportune difese, avendo ordinato che quattromila soldati eletti si trincerassero sulla destra alla bocca del ponte, e che sulla sponda medesima diciotto centinaja di cavalli stessero pronti a spazzare all'intorno la campagna, ed a calpestare chi s'accostasse. Il resto delle genti alloggiava sulla sinistra accosto al ponte per accorrere in ajuto della vanguardia, ove pericolasse. Muovevansi improvvisamente la mattina i repubblicani da Castiglione, Capriana, Volta e s'indirizzavano al ponte di Borghetto. Successe una battaglia forte, perchè gli Austriaci già tante volte vinti, non si erano perduti d'animo, anzi valorosamente combattendo sostenevano l'impeto dei Francesi. Restavano superiori sulla prima giunta, perchè non essendo ancora arrivate tutte le genti di Francia, che dovevano dar dentro, la vanguardia, che prima aveva ingaggiato la battaglia, fortemente pressata dalla cavallerìa Tedesca, cominciava a crollare ed a ritirarsi. Ma sopraggiungendo squadroni freschi, massimamente cavalli ed artiglierìe, furono gli Austriaci risospinti, nè potendo più resistere alla moltitudine che gli assaltava virilmente da tutte le parti, abbandonata del tutto la destra del fiume, si ricoverarono sulla sinistra. Guastarono un arco del ponte, acciocchè il nemico non gli potesse seguitare. Qui succedeva un tirar di cannoni molto fiero da una parte e dall'altra del fiume, ma senza frutto,


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