Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV. Botta Carlo
di per se non fosse abile al resistere, e richiedesse di ajuto la repubblica Francese, accorrerebbe ella certamente in soccorso di lui, e dissiperebbe i ribelli. Ma quando Piemontesi amatori di libertà si adunano per conquistarla, e per far la loro patria libera, volere che i Cisalpini, i Liguri, od i Francesi a loro si oppongano, è cosa del tutto sconveniente e vana. A questo dire aggiungeva Ginguenè rimprocci sul modo, con cui il governo Piemontese reggeva i suoi popoli, favellando degli abusi che gli scontentavano, dei rigori usati, dell'angustia delle finanze, del caro dei viveri, della insopportabile gravezza delle imposizioni. Concludeva, che i moti di sedizione non portavano con se alcun pericolo, se niuna radice avessero nella propensione dei popoli; ma che bene era da temersi, che i Piemontesi, la nobiltà in fuori, desiderassero esito felice alla impresa dei sollevati: che però, esortava, preoccupassero il passo, e prevenissero la rivoluzione col dare spontaneamente al popolo tutto quello, che si prometteva dalla rivoluzione. I rimproveri dell'ambasciadore sul mal governo del Piemonte erano, come di forestiero, inconvenienti; che la Francia poi non fosse obbligata a mantenere lo stato quieto al re, era falso, perciocchè a questo si era solennemente obbligata nel trattato d'alleanza.
In mezzo a tante angustie del governo regio, Ginguené, come se desiderasse torgli non solo la forza, ma ancora la mente ed il tempo di deliberare sulle faccende più importanti, non cessava di travagliarlo con importune richieste, muovendolo a ciò fare, parte i comandamenti del direttorio, parte i propri spaventi. Chiedeva perciò, ed instantemente ricercava Priocca, operasse, che il re cacciasse da' suoi stati i fuorusciti Francesi, ed ancora proibisse, sotto pena di morte, gli stiletti e le coltella. Voleva altresì, e minacciava il re, se nol facesse, che disperdesse i Barbetti, che infestavano le strade, ed assassinavano i Francesi. Alle due prime richieste rispondeva Priocca, che quanto ai fuorusciti Francesi, desiderava sapere, se la Francia, e l'ambasciador suo intendessero, ch'e' fossero perseguitati, o che la qualità loro di fuorusciti fosse certificata in giustizia, o ch'ella avesse nissun fondamento legale, e solo fosse effetto dell'odio personale, dell'invidia e delle fraudi; desiderava sapere, se volessero parlare di una emigrazione di fatto, o di una emigrazione di dritto. Se di fatto, e' bisognava che l'ambasciadore si risolvesse a rendersi complice di tutti gli atti d'ingiustizia e di violenza commessi da agenti subalterni per interesse o per vendetta contro un numero infinito di Savoiardi e di Nizzardi. Non di tutti parlerebbe il ministro; solo rammenterebbe il conte Selmatoris, nato in Cherasco di Piemonte, impiegato ai servigi militari, ed in corte del re da più di trent'anni, il quale stato solo in tutto il tempo della sua vita quindici giorni nello stato di Nizza, era stato scritto nella lista dei fuorusciti di quel paese. Rammenterebbe altresì il cavaliere di Camerano, il quale, chiuso dall'ottantaquattro in poi nell'ospedal dei matti di Torino, era stato ancor esso nella lista fatale notato. Osservava oltre a ciò Priocca, che il trattato di pace, lasciando al re la facoltà di conservare a' suoi servigi i Savoiardi ed i Nizzardi, aveva riservato alla repubblica Francese il diritto di addomandar l'allontanamento di coloro, che si rendessero sospetti. Ora vorrebbesi forse, insisteva, che tali stipulazioni guardassero indietro, o statuire il principio, che ogni qualunque denunzia senza pruove faccia un uomo sospetto? E potrebbe ella forse, questa valorosa e virtuosa nazione, imputare a delitto ad un ufficiale del re l'aver guidato contro di lei soldati, che poco dopo ella credè potere far compagni delle sue fatiche e delle sue vittorie? Finalmente, concludeva, la giustizia è il primo dovere delle grandi nazioni; ella è anzi bisogno, non che dovere, se esse non vogliono rimanersi alla triste gloria di dominar con la forza, e col terrore. Ora la giustizia domanda, anzi comanda, che non s'incrudelisca contro persona per accuse meramente date da chi è mosso da brama detestabile di vendetta, o da sete vile d'interesse.
Rispetto agli stiletti ed alle coltella, affermava Priocca, non potersi i portatori di tali armi pel solo fatto del portarle punire colla pena di morte, senza una considerabile alterazione nel corpo delle leggi, e che nè la giustizia, nè la umanità permettevano, che per solo termine di polizia e di prudenza, si usasse il mezzo estremo della morte. Se si punisce di morte colui che portava un'arme, qual pena si darebbe ad un omicida? Bene si maravigliava Priocca, che queste atroci dottrine si professassero, e l'uso loro anche con minacce s'inculcasse da coloro, che continuamente avevano in bocca parole di filosofia e di umanità. Certamente non erano queste le dottrine di Beccaria.
Quanto agli assassini dei Francesi, allegava il ministro, che se gli autori ne fossero conosciuti, sarebbero incontanente castigati, e che a questo fine si era ordinato a tutti i magistrati sì civili che militari, che la sicurezza e la vita dei Francesi diligentemente preservassero; ma che sapeva bene l'ambasciatore, ed era anche vero, che intieramente non si potevano impedire gli effetti dei risentimenti particolari suscitati dagl'insulti, e dalla cattiva condotta dei Francesi; che il mutare la natura degli uomini, ed il fare che non si risentano alle ingiurie, è cosa del tutto impossibile.
Così affermava Priocca, che il governo regio, per quanto stava in lui, fosse molto vigilante a render sicuri i Francesi in Piemonte, e quello che diceva, anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno, che secondo gli umori, od alla prima favola raccontata all'ambasciator di Francia dai democrati, che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a domandare, anche con termini molto imperativi, la liberazione degl'incolpati. Agitavasi la causa di un Richini, detto per soprannome Contino, capo di Barbetti, il quale accusato di grassazione contro un commissario Francese, che viaggiava da Torino a Susa, era stato arrestato per ordine regio, e tuttavia era sostenuto nelle carceri del senato a Torino. A costui fu suggerito da alcuni democrati, che se ne stavano carcerati con lui, un bel tratto, e questo fu, che affermando cose orribili ordite per suo mezzo dal governo regio contro i Francesi, l'avrebbero eglino scampato dal pericolo. Nè fu la risoluzione sua diversa dal consiglio; perchè testimoniò per iscritto, che il re defunto Vittorio Amedeo, il principe reale di Piemonte stato, dopo la morte di Vittorio, assunto al trono, ed il duca d'Aosta, figliuol secondogenito di Vittorio, gli avevano comandato, che se ne andasse nel contado di Nizza e nella riviera di Genova, e quivi avvelenasse tutti i fonti, ai quali necessariamente andassero ad abbeverarsi i Francesi; che quello, che gli era stato imposto, aveva mandato ad effetto; che per questo era sorta una grande mortalità così nei Francesi, come nelle bestie loro. Aggiunse questo Contino, che se n'era andato parecchie volte, per ordine espresso dei tre principi, ad arrestar i corrieri sulle strade, e che aveva da essi principi avuto la facoltà più ampia di ordinare sul colle di Tenda bande d'uomini armati col fine di assassinare i Francesi; ma che i principi medesimi per far vedere, che non l'avevano mosso a tutte queste enormità, l'avevano fatto carcerare, ed ordinato che se gli facesse, come affermava, un processo simulato. Io mi sento muovere a grandissima maraviglia, pensando che un ambasciatore di Francia, uomo del rimanente civile e buono, soffocata in lui la prudenza dall'illusione, non abbia abborrito dall'udire, credere, e rapportare, come fece, al suo governo calunnie tali contro principi religiosi e pii. Certo un deplorabile fantasma era quello, che gli occupava la mente. Il seguito fu, che Ginguené a nome del direttorio richiese solennemente il re, che gli desse Contino, ed il re gli satisfece dell'effetto, dandogli incontanente, e senza difficoltà l'uomo accusato d'assassinio di un Francese: vergognosa vittoria per un governo, ed un ambasciatore di Francia.
I terrori di Ginguené erano anche fomentati dalle esorbitanze dei democrati più ardenti, i quali, veduto che i Francesi a tutt'altro pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler camminare da se, ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandogli di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, prese occasione di un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i ministri, che si trovavano alle stanze di Torino, si misero a dire le cose più smodate, che uomo immaginar si possa. Nè contenti alle parole, mandarono attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguené. Egli era espresso in questa forma: «Popoli della terra, e voi massimamente patriotti, ed amici sinceri della libertà e dell'umanità, ascoltate le mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i dritti degli uomini in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno, che a loro voleva opporsi; ella ha rovesciato il suo trono, ella ha disperso tutte le forze dei confederati d'Europa, che erano accorsi in suo ajuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti, perchè ha trovato dappertutto uomini, che e conoscevano la giustizia della sua causa, e non esitarono a dichiararsi per lei contro la tirannide. Si era la Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti i popoli, e promettendo di ajutar quelli, che, com'ella, portassero odio ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo ch'ella si è proposto, è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna stima i popoli,