Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI. Botta Carlo

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI - Botta Carlo


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d'apparato.

      Giovacchino Murat, nuovo re di Napoli, annunziava la sua assunzione ai popoli del regno: avergli Napoleone Augusto dato il regno delle due Sicilie; due primi e supremi pensieri nudrire, essere grato al donatore, utile ai sudditi: volere conservar la constituzione data dall'antecessore: venire con Carolina, sua sposa augusta, venire col principe Achille, suo reale figliuolo, venire coi figliuoli ancor bambini, commettergli alla fede, all'amore loro: in esso consistere la contentezza dei popoli, in esso la sua benevolenza. Principiarono le Napoletane adulazioni. Il consiglio di stato, il clero, la nobiltà mandarono deputati a far riverenza ed omaggio a Giovacchino re. Il trovarono a Gaeta; in nome suo giurarono. Napoli intanto esultava. Inscrizioni, trofei, statue, archi trionfali, ogni cosa in pompa. Una statua equestre rizzata sulla piazza del Mercatello rappresentava Napoleone Augusto. Un'altra sulla piazza del palazzo raffigurava, sotto forma di Giunone, Carolina regina. Perignon, maresciallo di Francia, lodato guerriero, appresentava a Giovacchino le chiavi di Napoli. Generali, ciamberlani, scudieri, ufficiali, soldati, chi colle spade al fianco, chi colle chiavi al tergo, ed un popolo numeroso e moltiforme, chi portando rami d'alloro, e chi d'ulivo. Firrao cardinale col baldacchino, e con gli arredi sacri riceveva Giovacchino sulla porta della chiesa dello Spirito Santo: condottolo sul trono a tal uopo molto ornatamente alzato, cantava la messa, e l'inno Ambrosiano. Terminata la cerimonia, per la contrada di Toledo piena di popolo, a cui piaceva la gioventù e la bellezza del nuovo re, andava Giovacchino a prender sede nel reale palazzo. Pochi giorni dopo, incontrata dal re a San Leucio, faceva lieto e magnifico ingresso Carolina regina: risplendeva, come lo sposo, di tutta gioventù e bellezza. Guardavano la venustà delle forme, miravano il portamento dolce ed altero, cercavano le fattezze di Napoleone fratello: gridavanla felice, virtuosa, augusta.

      Furono felici i primi tempi di Murat. Occupavano tuttavia gl'Inglesi l'isola di Capri, la quale, come posta alle bocche del golfo, è freno e chiave di Napoli dalla parte del mare. La presenza loro era stimolo a coloro, che non si contentavano del nuovo stato, cagione di timore agli aderenti, e ad ogni modo impediva il libero adito con manifesto pregiudizio dei traffichi commerciali. Pareva anche vergognoso, che un Napoleonide avesse continuamente quel fuscello negli occhi, da parte massimamente degl'Inglesi, tanto odiati, e tanto disprezzati. Aveva Giuseppe per la sua indolenza pazientemente tollerato quella vergogna; ma Giovacchino, soldato vivo, se ne risentiva, e gli pareva necessario cominciar il dominio con qualche fatto d'importanza; andava contro Capri. Vi stava a presidio Hudson Lowe con due reggimenti accogliticci d'ogni nazione, e che si chiamavano col nome di Reale Corso, e di Reale Malta. Erano nell'isola parecchi siti sicuri, le eminenze di Anacapri, ed il forte Maggiore, con quelli di San Michele e di San Costanzo. Partiti da Napoli e da Salerno, e governati dal generale Lamarque andavano Francesi e Napolitani alla fazione dell'isola. Posto piede a terra per mezzo di scale uncinate, non senza grave difficoltà perchè gl'Inglesi si difendevano risolutamente, s'impadronirono di Anacapri: vi fecero prigioni circa ottocento soldati di Reale Malta. Conquistato Anacapri, che è la parte superiore dell'isola, restava, che si ricuperasse l'inferiore. Dava ostacolo la difficoltà della discesa per una strada molto angusta a guisa di scala scavata nel macigno, dentro la quale traevano a palla ed a scaglia i forti, specialmente quello di San Michele. Fu forza alzar batterìe sulle sommità per battere i forti, l'espugnazione andava in lungo. Arrivavano agli assediati soccorsi d'uomini e di munizioni dalla Sicilia. Ma la fortuna si mostrava prospera al Napoleonide, perciocchè i venti di terra allontanavano gl'Inglesi dal lido. Il re, che stava sopravvedendo dalla marina di Massa, fermatosi sopra la punta di Campanella, e veduto il tempo propizio, spingeva in ajuto di Lamarque nuovi squadroni. Gli Inglesi, rotti già in gran parte e smantellati i forti, si diedero al vincitore. L'acquisto di Capri piacque ai Napolitani, e ne presero buon augurio del nuovo governo.

      Erano nel regno baroni, repubblicani, e popolo. I baroni al nuovo re volentieri si accostavano, perchè si contentavano degli onori, nè stavano senza speranza di avere, od a ricuperare gli antichi privilegi, perciocchè malgrado delle dimostrazioni contrarie i Napoleonidi tendevano a questo fine, od almeno ad acquistarne dei nuovi. I repubblicani erano avversi a Giovacchino, non perchè fosse re, che di ciò facilmente si accomodavano, ma perchè si ricordavano, che gli aveva cacciati e fatti legare come malfattori in Toscana. Dava anche loro fastidio la vanità incredibile di lui, siccome quegli che indirizzava ogni suo studio e diligenza a vezzeggiare chi portasse un nome feudatario. Per questo temevano, che ad un bel bisogno gli desse in preda a chi desiderava il sangue loro; ma egli con qualche vezzo se gli conciliava, perchè avevano gli animi domi dalle disgrazie. Il popolo, che non meglio di Giovacchino si curava che di Giuseppe, si sarebbe facilmente contentato del nuovo dominio, purchè restasse tutelato dalle violenze dei magnati, ed avesse facile e quieto vivere. Ma Giovacchino tutto intento a vezzeggiar i baroni, trascurava il popolo, il quale vessato dai baroni e dai soldati, si alienava da lui. Era anche segno che volesse governare con assoluto imperio, il tacere della constituzione, che si credeva aver voluto dare Giuseppe in sul partire. Inoltre ordinò che si scrivessero i soldati alla foggia di Francia. Ciò fe' sorgere mali umori negli antichi possessori dei privilegi; nè meglio se ne contentava il popolo, perchè gli pareva troppo insolito. Siccome poi le provincie non quietavano, e che massimamente le Calabrie secondo il solito imperversavano, scrisse le legioni provinciali, una per provincia, ordine già statuito da Giuseppe, ma da lui rimessamente eseguito. Così tutto in armi; chi non le portava come soldato pagato, era obbligato a portarle come guardia non pagata. Veramente, quand'io considero gli ordini d'Europa, mi maraviglio; perchè mi pare che negli stati, in cui la metà e più della rendita pubblica va nel pagar soldati, gli stati debbono guardar i cittadini, e che un cittadino che paga in tasse ed in figliuoli soldati quanto lo stato gli domanda, perchè lo guardi, debb'esser guardato dallo stato: pure veggo, che dopo avergli dato e tasse, e figliuoli, è ancora obbligato a cingersi la sciabola per guardarsi da se. Queste sono le libertà e le felicità europee.

      Giovacchino, come soldato, comportava ogni cosa ai soldati: ne nasceva una licenza militare insopportabile. Seguitava anche quest'effetto, che il solo puntello che avesse alla sua potenza, erano i soldati, e che nissuna radice aveva nell'opinione dei popoli. Le insolenze soldatesche si moltiplicavano. Non solo ogni volontà, ma ogni capriccio di un capo di reggimento, anzi di un ufficiale qualunque dovevano essere obbedite, come se fossero leggi: chi anzi si lamentava, era mal concio, e per poco dichiarato nemico del re. Molto, e con ragione si erano doluti i popoli delle insolenze dei baroni, ma quelle dei capitani di Giovacchino erano maggiori. Rappresentavano i popoli i loro gravami, domandando protezione ed emenda. Ma le soldatesche erano più forti delle querele, e si notava come gran caso, che chi si era lagnato non fosse mandato per la peggiore. Nascevano nelle province un tacere sdegnoso, ed una sopportazione desiderosa di vendetta. Nè in miglior condizione si trovava Napoli capitale. La guardia reale stessa che attendeva alla persona di Giovacchino, oltre ogni termine trascorreva. Nissuna quiete, nissun ordine poteva esser pei cittadini, nè nel silenzio della notte, nè nelle feste del giorno; perchè solo un ufficiale della guardia il volesse, tosto turbava con importuni romori, minacce ed insolenze i sonni ed i piaceri altrui. Il re comportava loro ogni cosa. I mandatarj dei magistrati civili, che s'attentavano di frenare sì biasimevoli eccessi, erano dai soldati svillaneggiati, scherniti e battuti; e sonsene veduti di quelli, che arrestati per aver fatto il debito loro, dalle sfrenate soldatesche, e condotti sotto le finestre del palazzo reale, furono, veggente il re, segni di ogni vituperio. Quest'era lo stato di Napoli, quest'un governar peggiore che di Turchia. Troppo era fresco il dominio di Murat, a fare che un tal procedere non fosse non solamente barbaro, ma ancora pericoloso.

      I mali umori prodotti dalle enormità commesse dai soldati di Murat davano speranza alla corte di Palermo, che le sue sorti potessero risorgere nel regno di qua dal Faro. Infuriava tuttavia la guerra civile nelle Calabrie, nè gli Abruzzi quietavano. Erano in questi moti varie parti, e vari fini; alcuni di coloro che combattevano contro Giovacchino, e che avevano combattuto contro Giuseppe, erano aderenti al re Ferdinando, altri amatori della repubblica. Taccio di coloro, e non erano pochi, che solo per amore del sacco e del sangue avevano le armi in mano. Non sarà, credo, narrazione incresciosa a chi leggerà queste storie, se io racconterò come, e per qual cagione la setta dei carbonari a questi tempi nascesse. Alcuni dei repubblicani più vivi, ritiratisi durante le persecuzioni usate contro di loro, nelle montagne più aspre, e nei più reconditi recessi dell'Abruzzo e delle Calabrie, avevano portato con se un odio estremo contro il re, non solamente perchè loro persecutore era stato, ma ancora perchè era re. Nè di minore


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