La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814. Carlo Verri

La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814 - Carlo Verri


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della finanza avevano abbandonate le porte della città ed i cosí detti dazî, un immenso numero di gente di campagna, armati altri di bastone, altri di lunghi chiodi resi acutissimi, scorreva d'ogni intorno, designando con lo sguardo la preda, e ne' complotti le persone de' proscritti e le case da saccheggiare. Si è detto che alcuni siano stati trovati muniti di pugnali, chi di ben organizzati capestri. Invano il Consiglio municipale pubblicò di avere nominata una Reggenza provvisoria, composta de' signori generale Pino, Carlo Verri, Giacomo Mellerio, Giberto Borromei, Alberto Litta, Giorgio Giulini e Bazzetta; invano il generale Pino pregò, in un suo proclama, che si avesse fiducia in lui e che si stesse pacifici spettatori delle determinazioni che si andavano a prendere dalle AA. PP.; invano il corpo municipale si espresse, in altra stampa, che il popolo poteva darsi quella forma di governo che piú desiderava, che la sua libera volontà fosse partecipata ai Collegi, i quali avrebbero adottati quei mezzi, che il popolo stesso avesse giudicati piú opportuni alla sua felicità; invano il Vicario capitolare esortava nelle viscere di G. C. alla tranquillità, ordinava pubbliche preci con un triduo; invano lo stesso generale Pino, per salvare la forse minacciata persona del duca di Lodi, espose quelle dei senatori, avendo dichiarato in altro proclama che il duca non aveva avuto parte alcuna negli affari seguiti in Senato, poiché era in quei giorni gravissimamente infermo, e che le carte andate in Senato erano state fatte da tutt'altre persone, e neppure firmate da lui; invano il direttore delle privative e dei dazî di consumo, in un suo avviso che di concerto fu fatto col generale Pino, col cavaliere Podestà e col Consiglio comunale, aveva ridotto alla metà il prezzo dei sali e dei tabacchi e la tariffa dei dazî consumo; invano il primo atto della Reggenza fu quello di abolire la tassa del registro.

      Tutto fu inutile: non era opinione politica, non desiderio di una piuttosto che di un'altra forma di governo, non animosità contro il medesimo o contro il Principe, non sentimento di pubblico bene, che animasse la moltitudine.33 L'unico centro del voto generale era la rapina e la depredazione, e già si era tornato a compiere il guasto del palazzo del ministro e si era tentato in quello del Senato; fortunatamente il rimedio del male emerse dal male stesso. Emporio ricchissimo in merci, in derrate, in danaro era la dogana generale, ossia il cosí detto Dazio grande nel palazzo del Marino, ove e fondachi e doviziosi depositi erano affidati dal commercio milanese, essendovi pure gli uffici del ministero delle finanze e di varie sue direzioni generali. Vi si diressero gli ammutinati, sotto pretesto di disperderne e distruggerne le scritture. Fu allora soltanto che, nell'affannosa trepidazione del loro cuore, si mossero ad un tratto i negozianti, con una energia imperiosissima. L'unirsi a tal voce i padri, i figli, i giovani, i garzoni, gli amici, i conoscenti, il correre ai quartieri, l'armarsi di fucili e il dividersi in numerose pattuglie, fu pressoché un punto solo. Il presidente del Consiglio comunale ed il generale Pino, con altri proclami, chiamarono all'armi tutti i cittadini indistintamente. Il Consiglio credette di aggiungere eccitamento, con accordare un distintivo nazionale in una coccarda rossa e bianca. Di egual saccheggio era minacciato il palazzo della Corte. La guardia reale, i cannoni e lo stesso generale Pino la difendevano debilmente. Il generale fu insultato, la guardia forzata piú volte ed astretta a ritirare dalla piazza i cannoni e nel palazzo celarli. La stessa milizia civica marciava pavida ed incerta. Si fecero sbarrare le strade che conducevano al palazzo del Marino, ma le sbarre erano a gran pena difese.

      Un'accidentale combinazione presentò alla milizia un vantaggio decisivo sul popolo. Andavano le pattuglie, per un certo riguardo, colla punta della baionetta rivolta verso la canna del fucile, ma una di esse aveva i fucili tanto dalla ruggine investiti che non gli fu possibile di togliere dalle canne le baionette. Presentatasi in piazza s'intese un subitaneo fremito popolare, nel quale si distinguevano le parole: «a basso le baionette.» Il che non ottenutosi, furono tratti de' sassi sulla pattuglia; la quale essendo forte in numero, fattosi coraggio, abbassò le armi e corse a passo di carica sugli ammutinati, che si dissiparono all'istante. Questo primo esperimento felice fu efficace, perché si vedessero subito in aria le punte delle baionette di tutte le pattuglie, perché si disperdessero i crocchi, perché i piú rivoltosi pertinaci nella loro insolenza si arrestassero. Molti e ben molti arresti seguirono nel rimanente del giorno e durante la notte; molti la polizia trovò tra questi che, facinorosi e debitori di delitti anche gravi, eludevano da piú anni la sua vigilanza e che, fidati allora nell'anarchia e nell'impunità, erano accorsi, e forse stipendiati, al bottino. Cosí terminò, senza altri orrori, quella nera giornata, in cui ebbe luogo soltanto il saccheggio di altra casa di campagna del conte Prina. Frattanto arrivò nella notte un corpo di cavalleria italiana, parte della quale salvò dal proclamato spoglio la regia villa di Monza e parte rinforzò l'efficacia della milizia.

      Cessato lo spavento per il temuto disastro, di cui massimo bersaglio sarebbero stati i ricchi, tra' quali entravano quelli stessi che il primo impulso gli dettero, riavutisi questi appena dall'allarme, riammessero nel giorno 22 di aprile la marcia rivoluzionaria, e tutto lo studio loro rivolsero a distruggere la costituzione ed a sollevarsi ad una chimerica sovranità. In quel giorno ebbe luogo la prima sessione dei Collegi elettorali, illegalmente convocati, piú illegalmente costituiti. I soli elettori milanesi, compresi alcuni pochissimi appartenenti ai dipartimenti non invasi i quali erano in Milano per funzioni governative, essi soli, in numero di circa settanta, disponendo della sorte del Regno come di una loro proprietà baronale, approvarono la Reggenza, a cui si riserbarono di aggiungere altri individui per li detti dipartimenti, dichiararono il general Pino comandante in capo delle forze dello Stato, sciolsero tutti i sudditi e tutte le autorità civili e militari dal giuramento verso il sovrano, ordinando che altro se ne prestasse giusta gli ordini della Reggenza. Dichiararono come non avvenuta la deputazione del Senato, che cessato dissero; ordinarono la dimissione dei detenuti per motivi di opinione, di coscrizione, di finanza; ed accordarono amnistia ai disertori e refrattarî. Situatisi quindi al livello dei governi del piú alto rango ed assunto il tuono ed il linguaggio de' primi gabinetti, decretarono che «si avvertissero non meno i Comandanti delle Alte Potenze, che l'Armata Italiana della nomina fatta del general Pino, e che un indirizzo si facesse alle stesse Alte Potenze, pregandole a voler concorrere alla felicità del paese».

      Le norme della felicità a cui aspiravano furono indicate e prescritte alle AA. PP. nella successiva seduta del giorno 23. Il Consiglier di Stato Lodovico Giovio, decorato della Corona di ferro, quegli che pochi giorni innanzi, nella qualità di Commissario di governo, aveva perorato ai popoli del Lario mostrando loro la convenienza di sostenerlo con ogni mezzo di contribuzioni e di soldati volontari, egli fu acclamato dagli elettori in presidente de' Collegi. Aprí la seduta insinuando ad essi, che «chiedessero istituzioni liberali, un capo indipendente che, nuovo, non conosciuto da noi… accolga i nostri voti e le nostre benedizioni».

      Né a quelle insinuazioni furono sordi i Collegi, che in poche ore (senza neppure curarsi del lavoro e del rapporto di una commissione, giusta l'adottato costume dei corpi morali, anche in oggetti assai meno gravi) la base e l'impianto formarono dell'ideata costituzione. Incominciando da ciò, in cui non poteva nascere controversia e che era pure il fondamento della costituzione di Lione34, dichiararono che la religione cattolica era la religione dello Stato, la quale poi in altra seduta dissero piú accuratamente che essere dovesse la cattolica apostolica romana. Deliberarono quindi di chiedere alle Alte Potenze:

      Primo: Assoluta indipendenza del nuovo Stato Italiano, che sarà per rappresentare il Regno d'Italia, con la stessa denominazione o con quell'altra che alle AA. PP. piacerà di darvi.

      Secondo: La maggiore estensione di confini del detto nuovo Stato, combinabile cogli interessi e colle mire delle AA. PP. e colla nuova bilancia politica d'Europa.

      Terzo: Una Costituzione liberale, che abbia per base la divisione dei poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario, colla totale indipendenza di quest'ultimo; che ammetta una rappresentanza nazionale, cui spetti esclusivamente il formare le leggi e lo stabilire e regolare le imposte; che assicuri la libertà individuale, la libertà della stampa e del commercio; e che porti una stretta responsabilità negli incaricati de' rispettivi poteri.

      Quarto: Facoltà di fare questa Costituzione ai Collegi elettorali.

      Quinto: Un governo monarchico ereditario, primogenitale, e un principe, che per la sua origine e per le sue qualità ci possa far dimenticare i mali sofferti durante l'ora cessato governo.

      Anche


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<p>33</p>

«Cette déclaration concorde parfaitement avec la note précédente».

<p>34</p>

Il Saint-Edme riporta qui, tradotta in francese, la Costituzione della Repubblica Italiana adottata nei Comizi di Lione il 26 gennaio 1802: il testo originale di essa si ha nel Bollettino delle leggi della Repubblica Italiana, Anno I, Milano, Veladini [1802], pp. 1-19.