La plebe, parte III. Bersezio Vittorio
forma politica non vi ha da che fare. Anche la monarchia può soddisfare a ciò che pretendesi dalla giustizia verso le basse classi, che queste cominciano anche inconsciamente a domandare, che esige la legge medesima del progresso umano. Per questo è necessario oramai entri in azione l'elemento della plebe: quella forma politica qualsiasi, monarcato o repubblica, che saprà sinceramente accettare ed aiutare siffatta entratura e fondarcisi, avrà assicurate le proprie sorti soddisfacendo al bisogno dell'epoca…
«Quella classe che alla plebe dovrebbe tendere la mano è la borghesia. Uscita da poco, da ieri soltanto, fuor di quel baratro di soggezione, d'ignoranza e di miseria dove s'agita ancora il volgo, dovrebbe facilitare il cammino ai suoi fratelli. L'onda del progresso manda i derelitti a battere alla porta dell'edificio della civiltà dove banchettano i gaudenti, dov'è sapere e ricchezza: gli arrivati dovrebbero aprir loro il varco perchè colla violenza non lo dischiudano: colla violenza che tutto manda sossopra. Lo dovrebbero per generosità, lo dovrebbero per interesse: la borghesia, appena arrivata, lotta ancora coi tronconi tuttavia potenti dell'idra del passato che la scure della rivoluzione ha infranto, non ha spento del tutto. Le stanno a fronte più che tenacissimi, risuscitati a nuova vitalità, i resti del feudalismo, il militarismo, la teocrazia uniti in istretta lega dall'esperienza del comune pericolo a cui soggiacquero: un'alleanza fida, sicura, potentissima la troverebbe nella plebe.
«Anche la monarchia potrebbe avvantaggiarsene. Quel dì ch'essa apertamente si facesse redentrice delle plebi avrebbe schiacciato ogni rimasuglio di resistenza aristocratica, avrebbe scongiurato ogni rischio del dottrinarismo liberale borghese. E l'aristocrazia? Quando chiamasse ella stessa al desco fraterno della civiltà le classi tenute finora da esso lontane, nulla avrebbe a temer più della rivalità del ceto mercantile. Avrebbe trovato una forza nella dignitosa clientela di diritti che dimani avranno la foga di passioni e la terribile ragione del numero. Ma per ciò l'aristocrazia avrebbe da mutarsi del tutto d'indole e di essenza. E ciò, com'è oggidì, non vuole, non ha il coraggio da tanto, non ne ha neppure l'intelligenza. La borghesia liberale è ancora più adatta a quest'opera eccelsa e fatale, da cui ha da sorgere la società novella del venturo secolo; ma la borghesia in un accesso di cieco egoismo diffida e teme dei fratelli da cui si è separata da un giorno soltanto; e l'occhio volto esclusivamente alla ragion del guadagno ed alla materialità del suo benessere, dimentica la sua missione e i suoi veri interessi medesimi.
«Guai, guai a chi volesse di questa forza servirsi come d'una leva pel conseguimento de' suoi fini particolari, e di poi gettarla od infrangerla! Una volta affrontato il problema, o il suo scioglimento graduato ma logico e fatale, o la crisi la più spaventosa che abbia mai attraversato l'umanità.
Il marchese cessò un istante dal leggere e stette meditando.
– C'è molto da riflettere, disse fra sè, in queste pretese fra ingenue ed orgogliose della moltitudine, che ha trovato un ingegno ed una erudizione per dar voce all'inconscio lavorìo che si fa nel suo seno, e cui imprudentemente hanno solleticato ed aiutano le ambizioni malconsigliate dei rivoluzionari. È un sintomo dell'epoca. Codeste aspirazioni hanno bello ammantarsi delle sembianze generose di temperati richiami ad una ipotetica giustizia; le non sono altro che un mascherato desiderio dei godimenti materiali, cui soltanto i poveri vogliono vedere nella vita delle classi superiori. Sotto lo specioso nome di progresso, inventato dall'irrequieta ambizione de' moderni sovvertitori, non intendono in realtà altro che lo spogliar noi dei vantaggi sociali per goderne essi: l'ufficio alto e necessario ad un buon assetto dello Stato, cui esercita l'aristocrazia, disconoscono o fingono disconoscere: essi non pensano neppure ad assumersene il carico e non ne sarebbero capaci; e frattanto, togliendo alla classe superiore i privilegi, la riducono ancor essa nella impossibilità di compiere il suo mandato. Così la società rovinerebbe. A beneficio di chi? Delle più indegne passioni.
Curvò il capo fissando la fiamma vivace della legna che ardeva nel caminetto. Un penoso pensiero gli fece corrugare quella sua nobile fronte.
– Ma la nobiltà d'oggidì, soggiuns'egli con un sospiro, ma noi adempiamo ancora veramente ed efficacemente a quell'alto ufficio?
Non diede a se stesso risposta, come se non osasse, non sapesse; voltò una pagina del manoscritto e riprese a leggere un altro passo segnato dalla matita rossa del Commissario.
«Il vero fondamento d'un buono organismo sociale è la libertà: sarà migliore quel sistema, farà più felici i suoi popoli quel governo, effettuerà quanto più è possibile l'uguaglianza civile quel complesso di leggi e di amministrazione che guarentirà come l'arca santa di tutte le libertà, la libertà individuale.
«Gli antichi usarono molto il vocabolo di libertà, ma di essa non ebbero il menomo giusto concetto, sacrificando il cittadino allo Stato, schiacciando sotto l'ente collettivo l'ente individuale. Non formiamoci un idolo di quest'essere collettivo, la cui personalità, risultando dal complesso di tutte quelle che la compongono, deve cercare la sua prosperità in quella delle singole monadi che la costituiscono. Lo Stato ha la sua ragion d'esistere nell'obbligo e nel fatto di ottenere la maggior felicità dei membri tutti ond'è composto: dico di tutti, non di una classe – di tutti secondo la loro capacità e condizione. Quando manca a codesto dovere, o tutto il popolo tenuto in malessere, o quelle classi che sono oppresse hanno diritto di sovvertirlo: rimedio certo estremo, cui e popoli e Governo dovrebbero impiegare tutta la prudenza per evitare. Se il diritto insorge e non trionfa, si ha il fatto della tirannia.
«Il mezzo più sicuro di ottenere la maggior felicità di cui sia capace un popolo è la libertà, la quale ancora è mezzo unico efficace perchè questo popolo si renda degno di felicità maggiore e la conseguisca. La libertà accompagnata dalla giustizia, che genera infallibilmente la moralità. La libertà è la responsabilità di ciascuno e di tutti in faccia a tutti ed a ciascuno ed a se stesso: è la possibilità e l'incoraggiamento di svolgere ed impiegare tutte le forze individuali nel comune lavorìo onde risulta la coltura: e questo svolgimento e questo impiego trovano così limite soltanto ed arresto nello svolgimento e nell'uso di altre forze individuali più meritevoli, più potenti più logiche e quindi più degne d'espansione e di successo. Alcuna forza buona in codesto urto di attriti rimarrà soffocata fors'anco, alcuna cattiva, per audacia e pravità della natura umana riuscirà a trionfare; ma sarà un'eccezione che andrà sempre via via diminuendo a seconda che durerà l'esercizio della libera vita.
«Ma la risponsabilità dell'individuo presuppone nel medesimo la facoltà dell'apprezzamento e gli elementi del giudizio. L'uomo è tanto più libero e tanto più risponsabile, quanto più è istrutto. L'istruzione è primo elemento della libertà: l'educazione della coltura. Volete mantener serva una gente? Fate che sia ignorante. Volete chiamarla alla libertà? Obbligatela ad aprir gli occhi alla luce. Fondamento sul quale innalzare l'edificio d'un libero vivere, l'istruzione e l'educazione obbligatoria pei fanciulli di tutti. «Obbligatoria? Questa parola sembra stonare col tenore del mio concetto. Libertà ed obbligo, come s'accordano? S'accordano sì. Sono due termini di un'antinomia che si risolve in una proposizione dialettica, recando la quistione sul suo vero terreno.
«La libertà individuale consiste in ciò che l'uomo possa fare tutto ciò che spetta alla sua azione, tutto ciò che gli piace ed ommettere eziandio a suo talento tutto ciò che non ha voglia di fare, quando col suo fatto colla sua ommissione non urti nella libertà degli altri, non leda i diritti altrui. Se ad un uomo piace l'essere ignorante, che diritto ha la società di dirgli: rompiti la testa a studiare, perchè io voglio che tu sia istrutto? Potrebbe dirsi che la società da un uomo istrutto ricava utile assai più che da un ignorante, ed ha perciò diritto di pretendere che quel suo membro le dia tutto ciò che può darle di sua capacità; ma questo a mio vedere è un sofisma. L'uomo dev'essere accettato dalla società quale si trova: ricco o povero di talenti, ricco povero di cognizioni, ella non può pretender altro se non che non violi i diritti altrui, non minacci la sicurezza comune. Con diverso criterio bisognerebbe ammettere che la società avesse diritto di scrutare se l'individuo può dare maggior lavoro di quello che dia effettivamente, maggior virtù, maggior senno e che so io, ed obbligarlo a dare questo tanto di più: il che sarebbe non che tirannico, assurdo.
«Ma quand'è che l'individuo ha da godere di questa sua libertà che è per così