La plebe, parte III. Bersezio Vittorio
mentre portavo nei salotti eleganti la mia faccia sorridente e le mostre d'una ricchezza che non avevo, più volte mi rodeva le viscere il tormento della fame; e i pochi guadagni ch'io poteva fare, le poche rivalse cui mi riusciva in qualsiasi modo raccogliere, sa Ella come impiegavo? Qualche soldo appena a comprarmi in segreto, la sera, nascondendomi come per commettere una vergognosa azione, un pezzo di pan nero; e il resto a procurarmi guanti color di butirro, stivalini di vernicato e a farmi inanellar la zazzera dal parrucchiere alla moda!.. La mi dirà ch'ero pazzo, che mi facevo martire volontario d'una stupida vanità cui è un adulare il chiamarla ambizione; ma per me, pel mio sogno d'avvenire, pei miei disegni era una necessità. Ridevo crudelmente di me meco stesso, mangiavo con amaro dispetto, quasi con disprezzo di me quel tozzo di pan nero; mi dicevo, imprecandomi, che meglio la esistenza del villano che suda sull'aratro, che dico? meglio quella del galeotto che trascina la sua palla infame; ma non pensavo pure a cambiar di cammino, non pensavo a pentirmi; era mia sorte, era mio dovere continuare, o soccombere come un animale che crepa alla fatica, o riuscire.
«Don Venanzio, bisogna aver compassione di questa mia pazzia – se vuole così chiamarla. Essa è parte essenziale della mia natura: io sono venuto al mondo con essa; e per isradicarla da me avrebbe bisognato ben altra forza, ben altra indole che la mia non sia. Non se ne ricorda? Fin da bambino siffatti istinti si svegliarono nel mio essere e stupirono e spaventarono la sua prudente antiveggenza. Di molto ha Ella fatto per combatterli e vincerli; e nulla potè a ciò riuscire. Io credo che nel mondo conviene prendere gli uomini come sono, colle facoltà, le disposizioni, e quasi direi le attribuzioni che ha loro dato la natura. Da questa varietà di caratteri si genera lo infinito viluppo delle vicende del dramma umano di cui noi non possiamo vedere, nè indovinare, nè anco in alcun modo immaginare lo scioglimento e la ragione. A Lei, Don Venanzio, per parlare il suo linguaggio, dirò come, poichè la Provvidenza manda nel mondo questi varii tipi di individualità differenti, conviene pure che ciascuno abbia una sua parte necessaria nel concerto universale, e che dunque soffocare queste speciali tendenze, ridurre questi particolari caratteri alla norma comune, imbrancandoli nel gregge delle pecore che camminano per una via soltanto, è forse mancare eziandio alla suprema volontà e togliere un elemento al concorso dei molti su cui la sapienza regolatrice ha fatto assegnamento.»
Tentennò il capo Don Venanzio, poco persuaso dalla buona fede di Gian-Luigi in questa teoria delle cause finali.
– La Provvidenza, diss'egli gravemente, ma senza il pedantesco accento del predicatore, ci accorda varii istinti ed attitudini diverse, perchè diversamente possiamo concorrere alla grande e sublime unità dello scopo comune: ma questo scopo è il bene: ed hanno ad essere domati ed altrove rivolti quegli stimoli e quelle tendenze che ci piegano al male. Per questi la risultanza ultima non può essere stimata affatto buona se gli effetti più prossimi ed immediati cominciano per essere cattivi.
Gian-Luigi proruppe con impeto:
– Ah! ci sono certi affetti e passioni che misurarli alla piccola norma comune è errore.
Si raffrenò tosto: riprese la sua calma primitiva e la serenità sorridente.
– Ma io non son venuto qui per discutere: continuò egli. Ho già ammesso fin da principio che ho potuto aver torto. Però quello cui tengo a stabilire si è che il mio torto non fu così grave come Lei, Don Venanzio, e tu stesso, Maurilio, hanno creduto. Mi sarebbe stato possibile con quel modicissimo peculio che mi fu dato dagli eredi del mio protettore avviarmi per una vita rassegnatamente oscura e per ogni verso modesta: ed allora avrei potuto subito soccorrere d'un po' di pane la mia vecchia nutrice. Io volli invece tentare di metter la mano su più splendida sorte, tutto avventurare per tutto acquistare. Quando fossi riuscito non era più un misero soccorso soltanto, ma era la ricchezza ch'io avrei recata alla vecchiaia di quella donna che mi tenne luogo di madre. Come già dissi, ho lottato, ho sofferto, fui sul punto di cadere nella disperazione più volte. La perseveranza, la tenacità e il coraggio mi giovarono pur finalmente. Non sono ancora arrivato dove e come voglio: ma sono sulla strada, inoltrato forse più che della metà. Fra poco tempo – forse dei giorni soltanto – sarò alla meta. E frattanto da quella ricchezza che tanto tempo ostentai, senza possedere, incomincio ad avere favori e larghezze… Sono venuto qui a trovar Maurilio, perch'egli – e' m'era dolce la cosa passasse per le sue mani – facesse avere a Lei, Don Venanzio, questo migliaio di lire per la povera e buona Margherita. Ma la fortuna mi volle essere benigna di tanto da farmi trovar qui Lei medesimo, nostro buon padre, e son lieto di poterla pregare di viva voce di voler accettare quest'incarico di sovvenire con questa somma la mia nutrice.
Trasse di tasca un rotolo di napoleoni d'oro incartocciato, e lo porse al sacerdote, il quale lo prese con qualche esitazione.
– Mille lire, disse Don Venanzio, tenendo il rotolo fra le sue dita con un certo riguardo; è una ricchezza per quella povera donna: ma le riuscirebbe assai più gradito il dono, se tu stesso, Gian-Luigi, venissi a recarglielo, se tu stesso, come buon figliuolo fa per la madre, provvedessi ad acquistarle con siffatta somma ciò di cui ella abbisogna.
– Ha ragione, rispose Gian-Luigi, e codesto farei molto volentieri, glie l'assicuro, se lo potessi, ma pur troppo gravissime, pressanti e numerose occupazioni mi tolgono dal potermi recare per alcun tempo al villaggio… Ma le accerti alla buona Margherita, la prego, che appena mi sia fattibile – il che vuol dire fra una settimana o due al più – io mi recherò costà a vederla, a vedere quei cari luoghi pieni di tante memorie…
Si volse a Maurilio che era sempre stato muto fino allora, immobile, col suo sguardo penetrativo fisso sulle avvenenti sembianze del suo compagno d'infanzia.
– Ci andremo insieme, Maurilio, non è vero? Mi sarà più caro ancora il far teco questo primo pellegrinaggio di ritorno alla nostra piccola Mecca.
Maurilio fece un segno d'assentimento, ma non disserrò le labbra.
– Sta bene, disse allora il buon parroco, il quale, mezzo persuaso già dalle parole di quell'ingannatore, cominciava a trovarne minori i torti, ed aveva ripreso verso di lui l'accento affettuoso e cordiale di paterna tenerezza. Tu mi parli delle tue occupazioni che sono gravissime e numerose; ma quali son esse?
Il giovane non mostrò il menomo imbarazzo, e rispose con una specie di allegra leggerezza, facendo ballare colla mano inguantata i gingilli che pendevano dalla sua catenella d'orologio:
– Quali? Sono di vario genere… Prima di tutto, Don Venanzio, saluti pure in me un luminare della scienza medica, un dottore che ha saputo diventare, come si suol dire, alla moda.
– Medico! Come? Tu fai il medico?
– Sì signore. Non per tutti, non esclusivamente. Scelgo i miei clienti e le occasioni…
– Ma io ho sempre creduto che tu non avessi manco finito il corso di medicina.
– Finito e strafinito: esclamò Gian-Luigi dicendo questa bugia con più sicurezza che altri avrebbe avuta affermando una verità. Sono il medico prediletto delle signore che hanno i vapori e dei ricchi personaggi d'importanza che digeriscono male. Non accetto paga, ma mi forzano a prendere dei regali che valgono più del doppio… Non c'è mezzo migliore per farsi pagar caro che il non voler nulla. Ad un povero medico che sia un pozzo di scienza, ma che si presenti infangate le scarpe, il cappello frusto e gli abiti che mostrano la corda, non si aprono le soglie eleganti dei palazzi dei ricchi; ed è molto se lo si stima degno di curare i servitori: lo si paga e lo si tratta come un operaio qualunque. Al signor dottore che ha carrozza e veste come un milionario si spalancano i penetrali del tempio di Pluto. Io sono creduto in società un ricco che presta il soccorso della sua scienza a qualche amico per favore; poichè non ho bisogno, si crederebbe offendermi non regalandomi il doppio di quel che mi viene. Ma questa è la parte minore dei miei proventi. Faccio delle operazioni bancarie col re della nostra Borsa, il cavalier Bancone, a cui ho dato qualche consiglio per domare la sua gotta. Per riconoscenza egli mi fa da filo d'Arianna nel labirinto dei giuochi di Borsa. Ho cominciato per trafficare di capitali che non avevo: adesso faccio fruttare e rimpolparsi i guadagni avvenuti.
Don Venanzio aveva di nuovo nella sua fisionomia da galantuomo un'espressione di scontentezza:
– Io non me no intendo bene, diss'egli, ma questo non mi pare un lavoro serio.
– Seriissimo: