Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2. Giovanni Boccaccio

Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - Giovanni Boccaccio


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fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice dʼerbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come che in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per la sua singular sufficienza in poesi, sette nobili cittá di Grecia insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando ciascuna dʼesse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon, Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove stato si fosse seppellito, testimonianza lui essere stato suo cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero deʼ loro iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per molte centinaia dʼanni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú chiara testimonianza che gli altri dellʼaltre cittá; e cosí mostra di credere Lucano dove dice:

      Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,

      dicendo dʼOmero.

      Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura intervenne, nascendo egli, il quale disse: – Colui che al presente nasce morrá cieco; – e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale nome è composto ab «o», che in latino viene a dire «io», e «mi», che in latino viene a dire «non», ed «ero», che in latino viene a dire «veggio»: e cosí tuttʼinsieme viene a dire «io non veggio»; e, come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo udí sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in quella facultá; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i famosi studi, se nʼandò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí poesia e filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo chiamato Falacro, in quegli tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere. E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi variamente titolati, e tutti in istilo eroico, deʼ quali si trovano ancora alquanti, e massimamente la Iliade, distinta in ventiquattro libri, nella quale tratta delle battaglie deʼ greci e deʼ troiani infino alla morte dʼEttore, mirabilmente commendando Achille. Compose similmente lʼOdissea, in ventiquattro libri partita, nella quale tratta gli errori dʼUlisse, li quali dieci anni perseverarono dopo il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude deglʼiddii, il cui titolo non mi ricorda dʼaver udito. Scrisse ancora un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero guerra, stata tra le rane eʼ topi, la qual non finse senza maravigliosa e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion deglʼiddii, e composene uno chiamato Egam, la materia del quale non trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, deʼ quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle materie, ma ancora li loro nomi nascosi, e spezialmente a noi latini. E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua Iliade appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá, trovò in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo in quello molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima per maestero e carissima per ornamento di pietre e di perle; e coʼ suoi baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole stilo scrisse lʼopere del detto Alessandro, come cosa mirabile riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse loro piú tosto che alcuna altra da servare in cosí caro vasello. Non vʼebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale ornamento dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono, cioè che sí preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea che la Iliada dʼOmero: e cosí a servar questo libro fu deputata.

      [Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu di breve e poco sonno, ma quello prese con gran disagio; percioché, o povertá o astinenza che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri panni. Fu, oltre a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non aveva di che potesse dare le spese ad un fanticello che il guidasse per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertá era volontaria, percioché delle temporali sustanze niente si curava. Fu di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli; di mansueto animo e dʼonesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò, alcuna volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra lʼaltre, essendo in Atene ed avendo parte della sua Iliade recitata, il vollero gli ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva scritto glʼiddii lʼun contro allʼaltro aver combattuto, non sentendo gli ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, né quello che per quelle battaglie deglʼiddii Omero sʼintendesse: e per questo, credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse un valente uomo e potente nella cittá, chiamato Leontonio, il quale dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio lʼavrebbono ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza vendetta passare, percioché, appresso questo, egli scrisse un libro il cui titolo fu De verbositate Atheniensium, nel quale egli morse fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel vulgo di quegli nulla altra cosa essere che parole. E altra fiata, essendo chiamato da Ermolao, re ovvero tiranno dʼAtene, quasi sprezzandolo, disse che, per lui né per tutto il suo regno, non vorrebbe perdere una menoma sillaba dʼun suo verso, e che esso coʼ suoi versi possedeva maggior regno che Ermolao non faceva con la sua gente dʼarme. Per la qual cosa, turbato, Ermolao il fece prendere e crudelmente battere e poi metterlo in pregione; nella quale avendolo otto mesi tenuto, né per questo vedendolo piegarsi in parte alcuna dalla libertá dellʼanimo suo, il fece lasciare; né poté fare che con lui volesse rimanere.]

      [Della morte sua, secondo che scrive Callimaco, fu uno strano accidente cagione; percioché, essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo lito del mare, sentí pescatori, li quali sovra uno scoglio si stavano, forse tendendo o racconciando lor reti: li quali esso domandò se preso avessero, intendendo seco medesimo deʼ pesci. Costoro risposero che quegli, che presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non aveano, se ne portavano. Era stata fortuna in mare, e però, non avendo i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, sʼerano stati al sole, e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di queʼ vermini che in essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi neʼ vestimenti rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la risposta deʼ pescatori, ed essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sospeso, per caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e fieramente nel cader percosse, e di quella percossa il terzo dí appresso si morí. Alcuni voglion dire che, non potendo intender la risposta fattagli daʼ pescatori, entrò in tanta maninconia, che una febbre il prese, della quale in pochi dí si morí, e poveramente in Arcadia fu seppellito; onde poi, portando gli ateniesi le sue ossa in Atene, in quella onorevolmente il seppellirono].

      Fu adunque costui estimato il piú solenne poeta che avesse Grecia, né fu pure appo i greci in sommo pregio, ma ancora appo i latini in tanta grazia, che per molti eccellenti uomini si trova essere stato maravigliosamente commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue Quistioni tusculane scrive Tullio cosí di lui: «Traditum est etiam Homerum caecum fuisse: at eius picturam, non poësin videmus. Quae regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita expictus est, ut quae ipse non viderit, nos ut videremus effecerit?», ecc. Né si sono vergognati i nostri poeti di seguire in molte cose le sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa meritamente qui il nostro autore il chiama «poeta sovrano».

      [Fiorí adunque questo mirabile uomo, chiamato da Giustiniano cesare padre dʼogni virtú, secondo lʼopinione dʼalcuni, neʼ tempi che Melanto regnava in Atene, ed Enea Silvio regnava in Alba. Eratostene dice che egli fu cento anni poi che Troia fu presa. Aristarco dice lui essere stato dopo lʼemigrazion ionica


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