I Mille. Garibaldi Giuseppe
in ammirazione.
Il salvato dalle onde manifestò alcuni segni di pazzia, e forse egli si gittò col proposito di raggiungere il Lombardo che veniva dietro il Piemonte; la freschezza del mare però tornandolo a più savi consigli, egli mostrossi espertissimo nuotatore lottando per raggiungere il palischermo che vogava alla di lui direzione.
Il contrattempo delle munizioni, nella prima notte del nostro viaggio che ci obbligò di andare a Talamone e quello del pazzo che ci ritardò alquanto, influirono certamente al buon esito della spedizione. E veramente avendo toccato nel porto suddetto fuori d’ogni previdenza ci sviammo dalla retta che va da Genova all’Occidente della Sicilia. Il benefizio del ritardo, cagionato dal pazzo, lo vedremo al nostro arrivo a Marsala. La traversata si compie senza altri incidenti, e l’alba dell’11 maggio ci trovò all’atterraggio del Marittimo.
CAPITOLO V
MARSALA
L’immacolato tricolor dolenti
Sì noi macchiammo per veder risorti
Della Romana Italia i macilenti
Nipoti a un fascio e a un camminar consorti.
Eccola! l’isola dei portenti; la patria di Cerere, d’Archimede e dei Vespri, cioè dell’intelligenza e del valore. – Archimede, prototipo dei favoriti dell’Onnipotente, trovava il globo da lui abitato cosa insignificante, paragonato all’infinito, e chiedeva una leva, il manico d’una scopa, per smuovere questo domicilio d’insetti.
I Vespri! E qual popolo della terra ha i vespri? – Roma cacciò i Tarquinii; Saragozza i Napoleonidi; Genova e Bologna gli Austriaci, ma chi, come questo invitto popolo, esterminò in poche ore un esercito formidabile d’oppressori senza lasciarne vestigio? Fatto unico nella storia del mondo!
La direzione dei Mille era pur Sciacca8, ma l’ora tarda consigliò d’approdare al porto più vicino di Marsala.
La pesca è per il laborioso popolo di Sicilia un mezzo d’industria non indifferente, e l’isola in tutte le sue coste è solcata da molte barche pescherecce.
I Mille avean bisogno di conoscere se v’erano legni da guerra in Marsala, e quindi si corse sopra un pescatore per aver informazioni. Il pescatore che servì anche da pratico, informò che soltanto una corvetta inglese giaceva all’áncora su quella rada; che però varii bastimenti da guerra n’eran partiti alla mattina con direzione a levante verso Capo S. Marco.
E veramente verso Capo S. Marco si scorgevano due vapori ed una fregata nemici che si diressero su di noi subito scoperti.
Qui corse all’idea di molti che il ritardo in mare per ricuperare il pazzo fu giovevole.
Giunti a Marsala i due piroscafi, s’incominciò subito lo sbarco, aiutati dai palischermi di varii legni mercantili ancorati nel porto.
Il Generale Türr, con una compagnia di avanguardia, marciò immediatamente verso la città, ove non vi fu resistenza. Intanto i Mille sfilavano coperti dal molo, e poco curando una pioggia di granate e mitraglie che il naviglio Borbonico inviava a profusione, e che per fortuna non cagionò feriti.
A Marsala si parlò di dittatura, che poi venne proclamata a Salemi nel giorno seguente, e si confermò il motto: Italia e Vittorio Emanuele. Savia deliberazione che, non ostante l’opinione contraria dei puri (manifestata in seguito), giovò non poco a facilitare la spedizione.
Il 12 maggio si giunse a Salemi, ove si cominciò ad aver la riunione d’alcune squadre di Siciliani.
Il 13 si giunse ad una tenuta campestre, il di cui proprietario credo fosse un Mistretta.
Il 14 a Vita, ove s’ebbero notizie trovarsi il nemico a Calatafimi.
Il glorioso 15 maggio decise della sorte della campagna.
CAPITOLO VI
CALATAFIMI
Vittorioso!
Non catafratto un popolo
Dalla battaglia uscir!
L’alba del 15 maggio trovò i Mille disposti a battaglia sulle alture di Vita, piccolo villaggio di quel nome, e dopo poco il nemico usciva in colonna da Calatafimi alla nostra direzione.
I colli di Vita sono fronteggiati verso tramontana dalle alture chiamate Pianto dei Romani; distanti un miglio circa dalla città di Calatafimi, ove esiste la tradizione: esser stati i Romani disfatti in quel sito dai Siciliani, collegati alla potente popolazione di Segeste, di cui si scoprono le ruine non lontane al settentrione.
Dalla parte di Calatafimi le alture suddette hanno un dolce declivio: il nemico le ascese facilmente e ne coronò i vertici tutti. Così rimase colla fronte appoggiata alla parte scoscesa che guardava verso i Mille.
Occupando noi le alture opposte a mezzogiorno era forse più conveniente di aspettarlo che iniziare l’attacco. E veramente spiegammo i Carabinieri Genovesi, in catena, sull’ultimo ciglione della posizione nostra verso il nemico.
Le compagnie restanti dei Mille scaglionate indietro ed in colonna, e la nostra povera ma valorosa artiglieria sullo stradale alla nostra sinistra.
Il nemico credendo d’aver a fare forse colle sole squadre, essendo i Mille al coperto, inviò baldanzoso alcune catene di tiratori con adeguati sostegni e due pezzi di montagna.
Giunto a tiro, esso cominciò a far fuoco, e continuò ad avanzare su di noi. L’ordine tra i Mille era di non sparare ed aspettare il nemico vicino; quantunque già i prodi Liguri avessero un morto e varii feriti.
Come foriero di vittoria, uno squillo di tromba nostra suonò una sveglia americana, e l’avanguardia nemica come per incanto fermossi e forse i suoi capi si pentirono d’aver avanzato tanto. – I Borbonici capirono di non aver a che fare colle sole squadre, e le loro catene cominciarono un movimento retrogrado.
I Mille toccarono allora la carica – i Carabinieri Genovesi in testa e con loro un’eletta schiera di giovani non appartenenti alle compagnie ed impazienti di menar le mani.
L’intenzione della carica era di fugar l’avanguardia nemica e d’impossessarsi dei pezzi – ciocchè fu eseguito con un impeto degno dei campioni della libertà italiana – non però di attaccare di fronte le formidabili posizioni occupate dal nemico con molte forze.
Però chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati sul nemico? – Invano le trombe toccarono: Alto! I nostri o non le udirono o fecero i sordi, e portarono a baionettate l’avanguardia nemica sino a mischiarla col grosso delle forze Borboniche che coronavano le alture.
Non v’era tempo da perdere, o perduto sarebbe stato quel pugno di prodi – e subito dunque si toccò a carica generale, e l’intiero corpo dei Mille accompagnato da alcuni coraggiosi delle squadre, mosse a passo celere alla riscossa.
La parte più pericolosa dello spazio da percorrersi era nella vallata che ci divideva dal nemico. Ivi pioveva una grandine di moschetterie e mitraglie che ci ferirono un bel po’ di gente.
Giunti poi a piede del Monte Romano, si era quasi al coperto delle offese, ed in quel punto i Mille, alquanto diminuiti di numero, si aggrupparono alla loro avanguardia. – La situazione era suprema! Il nemico più forte di noi in numero, era lì sulla testa nostra in posizioni fortissime! – Eppure bisognava vincere! – E con tale risoluzione si cominciò ad ascendere la prima banchina.
Non ricordo il numero, ma certo eran varie le banchine che ci dividevano dai Borbonici.
Ed ogni volta che si avanzava dopo aver preso fiato, da una banchina all’altra, era una grandinata di palle. – E noi! – Mi fa ribrezzo il ricordarlo! i catenacci che ci aveva regalati il Governo Sardo, ci negavano fuoco, e si scorgeva il dispetto sull’eroiche fisonomie di quei giovani, che spero saran presi ad esempio dalla generazione che segue, destinata a compiere l’opera santa.
Qui pure fu grande il servizio reso dai figli della Superba
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Città.