La vita italiana nel Trecento. Various

La vita italiana nel Trecento - Various


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spiega lo squilibrio esistente fra il pensiero di Cola e la sua azione: quanto è fecondo e animoso il primo, altrettanto è sterile e paurosa la seconda. Piena la mente di concetti tratti dall'antichità romana, e sformati dalle idee fantastiche del suo tempo, ei si scoraggiava e perdeva quasi il lume dell'intelletto, tosto che entrasse nella vita reale del mondo. Ciò spiega ancora com'ei fosse preso dalle vertigini, appena che dall'umile stato in cui era nato, si vide portato su dalla fortuna. La vanità s'impadronì del debole suo spirito, così da neutralizzare in lui ogni nobile sentimento. Più che i titoli grandiosi assunti e gli apparati di pompa onde si fe' circondare, vi è un fatto che dimostra l'influenza sinistra che la vanità esercitò sul suo carattere. E il fatto fu l'offesa ch'ei recò all'onore di sua madre per farsi credere di origine regale, quando invece era nato da un taverniere. La lettera ch'egli scrisse a Carlo IV, l'agosto 1350 dal carcere di Praga, in cui, per riacquistare la libertà, mise fuora la fiaba di essere figlio di Enrico VII, accusando sua madre – Quæ invencola erat et non modicum speciosa – di avere concesso ad Enrico VII, al tempo dei tumulti romani suscitati dalla sua coronazione – nec minus forsitan quam sancto David et iusto Abrahe per dilectas extitit ministratum; – questa lettera, dico, getta sul carattere di Cola un'ombra più sinistra che non potessero fare tutti gli errori suoi accumulati insieme. Fra questi errori, ve n'è uno che fu cagione principale della sua rovina. Esso fu l'associazione della sua opera rivoluzionaria con la teologia. Il fondamento mistico sul quale il tribuno fissò il nuovo Stato romano consisteva nella presunzione ch'esso fosse opera della Spirito Santo. Da ciò il titolo da lui assunto di candidatus spiritus sancti, che, per via di auto-promozioni, dovea condurlo a quello eccelso di secondo Gesù Cristo, adducendo a ragione del raffronto superbamente insano il fatto, che, come il Nazareno, in età di 33 anni, incoronato di vittoria salì al cielo, vinti i tiranni dell'inferno e liberate le anime; così egli nella età stessa, avea abbattuto, senza sfoderare la spada, i tiranni di Roma, ed erasi fatto incoronare colla corona tribunizia come unico liberatore del popolo. E anche in questo campo mistico, che, per la sua natura, meno si prestava ad antimonìe, Cola trovò modo di portarvi la sua duplice personalità. Perchè, scordando egli che la sua qualità d'inviato di Dio gl'imponeva sopratutto l'umiltà sotto tutte le forme, praticò l'opposto circondandosi di una magnificenza asiatica, che al titolo stesso di tribuno stranamente contraddiceva. Ma già il nome tribunizio era stato soffocato da una selva di pomposi addiettivi e di complementi, così da essere ridotto a una vera parodia. Ecco infatti come Cola si chiamava nelle pubbliche carte: “Nicolò, per autorità del clementissimo signor nostro G. C., severo e clemente, tribuno di libertà, di pace e di giustizia, e liberatore della sacra repubblica romana.„

      Che Cola di Rienzi fosse riuscito, ad onta di queste sue stravaganze, a suscitare un grande entusiasmo per sè, non solo in Roma, ma ancora in tutta Italia, è un fatto codesto che non può mettersi in alcun dubbio. Lo comprova la stessa testimonianza del Petrarca. In una epistola indirizzata al popolo romano, il Petrarca chiamava Cola di Rienzi “nuovo Bruto, maggiore dell'antico„ e invitava i cittadini a onorarlo: “Ma voi, cittadini, diceva il grande poeta, onorate codest'uomo, onoratelo quasi un messo del cielo, un raro dono di Dio, e ponete la vostra vita per la sua salvezza.„ Il popolo non avea bisogno di tale impulso per amare e onorare il suo tribuno. Ma non era lo slancio di un patriottismo nobile e disinteressato inspiratore di codesto sentimento popolare per Cola; era invece la generale miseria del tempo, la quale operava che ciascuno si volgesse a chi pareva promettere lenimento e salvezza. E questa sicurtà, da gran tempo perduta, Roma l'avea per opera del suo tribuno riacquistata: “Allora, scrive il biografo contemporaneo di Cola, le selve si cominciaro a rallegrare, perchè in esse non si trovava ladrone; allora li bovi cominciaro ad arare, li pellegrini a far la cerca per la santuaria, li mercanti a spasseggiare, li procacci… In questo tempo paura e tremore assalìo li tiranni; la buona gente, come liberata da servitude, si rallegrava.„ Ma quando la clemenza inconsulta del tribuno verso i tiranni fe' da costoro svanire la paura, allora la sicurezza decantata dal biografo scomparve, e con essa cadde il fascino che Cola avea esercitato sul popolo. Da quel momento la fine del tribuno fu segnata. Ora fu messa pure in evidenza l'inettezza assoluta di quest'uomo a far trionfare la rivoluzione da lui suscitata. Dalla più audace impudenza egli passa alla più volgare pusillanimità: e il candidato dello Spirito Santo, che dal suo evento avea dato l'inizio di una nuova êra – liberatæ Reipubblicæ anno primo, – alla prima levata di scudi de' suoi nemici, si ripara in Castel Sant'Angelo, per poter di là, col favore delle tenebre, fuggire da Roma come un malfattore. E non fosse mai più tornato in quella città per lui fatale! Avrebbe risparmiato al popolo romano un crimine codardo, a sè una fine raccapricciante.

      E che rimase, si può ora domandare, di questa gran rivoluzione che Cola di Rienzi seppe suscitare nel nome di Roma? Il suo risultamento del tutto negativo ci dimostra che, se l'autore di essa fu troppo minore della colossale impresa, minore di essa fu anche il popolo romano, e con esso tutta la gente italiana d'allora. Un solo dei contemporanei la comprese, e la immortalò, sia con le sue opere latine, sia con quella celebre canzone, che per lungo tempo si era creduto fosse indirizzata a lui, e che, sebbene ad altro personaggio si riferisse, comparisce egualmente come il vaticinio di un grande evento, onde il Petrarca avea piena l'anima, l'Italia, cioè, fatta nazione. Per farlo nascere al suo tempo, il poeta, dopo di avere invano invocato la pace, predicò la guerra, la guerra contro i tiranni di Roma; e invocò “Gesù buono e troppo mansueto„, perchè sorgesse ad abbattere i suoi nemici, che, sotto lo scudo del suo nome, facevano cose obbrobriose. Ma non era scritto nei fati d'Italia che la patria nostra dovesse risorgere in quella lontana età. E profetica fu ancora la canzone Spirto gentil, per quella immagine del “Cavalier che Italia tutta onora„, il quale ha da sedere su 'l Monte Tarpeo, “Pensoso più d'altrui che di sè stesso„. È argomento tuttodì controverso a chi il poeta intendesse alludere con quella immagine, la quale, come attesta il Machiavelli, attrasse e inspirò l'anima entusiasta dell'infelice Stefano Porcari. Ma qualunque sia il personaggio a cui il poeta riferì l'immagin sua, egli è certo che l'Italia, dopo averla cercata invano per lunghi secoli, la trovò finalmente all'età nostra, in quel cavaliere, che, portata sul Campidoglio la spada d'Italia, pronunciò davanti al mondo civile le celebri parole: “qui stiamo e qui resteremo„; compendiate felicemente dal successor suo nell'attributo dato alla Roma libera d'intangibile.

      I PRIMORDI DELLE SIGNORIE E DELLE COMPAGNIE DI VENTURA

      DI

      AUGUSTO FRANCHETTI

      I

      Se, passando da piazza della Signoria, alzate gli occhi a guardare le armi dipinte sotto il ballatoio di Palazzo Vecchio, ne vedrete una, che porta uno scudo azzurro col motto Libertas, ed era l'insegna del magistrato de' priori: la stessa parola si legge scritta sullo stemma di Bologna e d'altri comuni; e si trova ad ogni passo nei bandi delle autorità, nei discorsi degli oratori, nei versi dei poeti, durante i secoli XIII e XIV. Ma la libertà che amavano e bramavano gli uomini di quei tempi, e per la quale erano pronti a dare fino all'ultima goccia di sangue, era la libertà di regolare le cose del Comune opprimendo ferocemente le consorterie e le fazioni avversarie, e di tener soggette le terre vicine, anche taglieggiandone gli abitanti. Alle menti medievali, il diritto politico si rappresentava come un privilegio, e le attribuzioni dello Stato come franchigie; quel che chiamavasi Comune era quasi sempre il governo d'una fazione; le sue leggi e i suoi statuti, anche in materia civile e amministrativa, miravano a difesa o ad offesa partigiana; e le sue giustizie medesime apparivano vendette. Abbattuti i feudatari e costretti i più di questi a venire dentro le sue mura, il Comune s'era sostituito nelle loro ragioni, e le esercitava, con non minor vigore, a carico dei vassalli, sotto le due alte e mal definite potestà della Chiesa e dell'Impero; potestà intorno alle quali s'aggira tutta la storia dell'evo medio, e che combatterono tra loro le ultime grandi battaglie appunto fra il 1226 e il 1268, cioè fra il principio della seconda Lega lombarda e il supplizio di Corradino. Laonde rimase all'Italia una funesta eredità di odî, di divisioni e di rovine e le si apparecchiò, pel futuro, uno stato d'impotenza e di dipendenza politica, confortato soltanto dal sogno della duplice supremazia universale.

      Non vanno accettate a chius'occhi le meravigliose descrizioni che ci lasciarono poeti e cronisti del beato vivere nelle prime età dei Comuni. Presto incominciarono le guerre coi vicini e anche le discordie

      Tra


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