La vita italiana nel Trecento. Various

La vita italiana nel Trecento - Various


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Ma non era un buon rimedio: poichè i signori feudali che ambivano la potestà, nè scadendo dall'ufficio, avrebbero potuto per regola esservi confermati, riuscivano invece a farsi eleggere capitani del popolo, e viceversa, perpetuando così la propria autorità. I Comuni, in sostanza, con simile istituzione, si confessavano inetti ad esercitare la giustizia, senza ricorrere ad un estraneo; era dunque naturale che quest'ultimo, destreggiandosi fra le parti contrarie o mettendosi a capo di una di esse, suscitasse nei più il desiderio che gli fosse dato in mano lo Stato.

      Ciò appunto avvenne in Ferrara; dove Azzo d'Este e il Salinguerra giuniore, dopo aver proceduto d'accordo per qualche anno, vennero ad aperta rottura; nel 1207 il secondo cacciò il primo, e alla sua volta fu cacciato l'anno seguente. Ma in tale occasione la cittadinanza creò l'Estense governatore, rettor generale e signore perpetuo di Ferrara, colla trasmissione della dignità nel suo erede, e col diritto di provvedere, di correggere, e di riformare ogni cosa ad arbitrio della sua volontà.

      Fu il primo esempio, dice il Muratori (che pubblicò l'atto solenne), d'un Comune il quale cedesse la propria sovranità per metter freno alle discordie intestine. Se non che la fazione dei Salinguerra tornò vittoriosa nel 1209, e l'imperatore Ottone riconciliò momentaneamente i due competitori; ne seguirono nuove vicende di guerra e di pace, finchè nel 1240, abbattuti gli avversari coll'aiuto del legato pontificio, Azzo VII diventò davvero signore perpetuo della città. Invero, morto che fu, nel 1264, i fautori della sua casa ne assicurarono la successione ad un figliuolo illegittimo d'un suo figliuolo. Ed un cronista contemporaneo sentì un Aldighiero dei Fontanesi (disceso dagli Aldighieri di Val di Pado e però congiunto col sommo Poeta) arringare il popolo dicendo: “Non temano gli amici, nè s'imbaldanziscano i nemici… Rimane quell'Obizzo diciassettenne, di buona indole e di buona speranza. E se, a prender la signoria, Casa d'Este non avesse più nessuno, ce lo faremmo di paglia.„ E il popolo a gridare: sì, sì! In simil modo Obizzo fu acclamato signore di Modena nel 1288 e di Reggio nell'89: plebisciti che poi si rinnovarono anche a pro di altri Estensi: segnatamente a Ferrara per Rinaldo nel 1317 e a Modena per Obizzo II nel 1336. Ma dell'opera propria non ebbe già da lodarsi quell'Aldighiero; il quale morì avvelenato a tradimento da Obizzo I, e poco dopo i suoi parenti, essendosi due volte sollevati, furono tutti o ammazzati o banditi.

      Di questi e d'altri delitti (quali l'eccidio per agguato di Jacopo del Cassero e la seduzione di Ghisolabella de' Fontanesi) fece giusta vendetta il Poeta sommergendo lo spirito del tristo marchese nella fossa di sangue bollente, e infamando in pari tempo (secondo la voce che allor correva) le azioni e i natali del suo successore Azzo VIII:

      … Quella fronte che ha il pel così nero

      È Azzolino; e quell'altro che è biondo

      È Obizzo da Esti, il qual per vero

      Fu spento dal figliastro su nel mondo.

      IX

      Bene stanno uno accanto all'altro quei due tiranni, il guelfo Obizzo, alleato di Carlo d'Angiò, e il ghibellino Ezzelino III da Romano, genero e vicario di Federigo II, spietati ugualmente ambedue, se non che l'uno più feroce e l'altro più perfido.

      Degli Ezzelini v'è già stato parlato da altro lettore3: ond'io ricorderò soltanto in qual modo questi grandi feudatari (anch'essi, come gli Estensi, d'origine germanica) fondassero la lor signoria nella Marca Trevigiana, dove il loro avo Ecelo nel 1036 aveva avuto dall'imperatore Corrado II il castello di Romano. Il primo Ezzelino, tornato dalla seconda crociata, fu creato avvocato ossia mandatario e campione di molti vescovi e abati e con ciò arricchì e ingrandì la sua casa. Dopo aver servito il Barbarossa, passò all'altro campo e diventò rettore della Lega lombarda; giurò la cittadinanza di Treviso e di Vicenza e in ambedue questi Comuni tenne per primo l'ufficio di podestà.

      Il figliuolo, Ezzelino II, vien detto il Monaco, perchè (come varii principi di quella e d'altre età) volle finir la vita in un chiostro. Succeduto al padre nel 1184, ne continuò le tradizioni e la fortuna politica, or podestà, or capitano di varie città, e sempre accortamente mescolato nelle guerre e nelle paci, nelle leghe e nelle fazioni. L'istesso fece il terzo Ezzelino; ma con tanta gagliardia e con tanta crudeltà che colpì le menti di pauroso stupore; le storie e le novelle, anche più di due secoli appresso, sono piene del suo nome; onde l'Ariosto cantava:

      Ezzelino, immanissimo tiranno

      Che fia creduto figlio del demonio.

      Colle podesterie e colle armi, aiutato da Federigo II e dai Ghibellini, s'era impadronito di Verona, di Vicenza, di Bassano, di Padova, e quindi di Treviso, di Trento, d'Este, di Bassano e di Belluno: si reggeva cinto da satelliti, spogliando e abbassando i grandi, e sollevando la plebe, e parve giungere al culmine nel 1250, mentre la città di Verona lo gridava suo signore, a suono di trombe e di tamburi, in mezzo ad un generale tripudio non minore di quello che nel 1259 doveva festeggiare la sua estrema rovina. Oramai i Comuni lombardi che primi avevano acquistata la libertà, erano anche i primi a mostrarne fastidio. E se n'era veduta pure una prova, diciassette anni innanzi, quando il buon frate Giovanni di Schio, predicando concordia e perdono, aveva fatto giurare la pace a ben 300 mila persone sui campi di Paquara. Poichè il frate medesimo col favor della moltitudine fu eletto conte e signore a Vicenza e a Verona; e tosto prese a mutare statuti e magistrati, a farsi dare ostaggi, e fu accusato d'infierire contro gli eretici e i Ghibellini; onde si riaccesero le passioni un momento sopite, e l'opera del sant'uomo miseramente fallì. Par di leggere la scena dello Shakespeare, così vera di psicologia storica, dove la plebe romana, in risposta all'infiammata allocuzione di Bruto, gli gridava: “Sii tu il nostro Cesare!„ Infatti la repubblica nell'antica Roma non poteva risorgere, e trascorsi appena tredici anni dall'uccisione di Cesare, vi si impiantava il dominio d'un solo. Alcunchè di simile accadde nei Comuni lombardi, nella seconda metà del secolo XIII, dopochè Ezzelino, vinto al Ponte di Cassano dalla crociata bandita contro di lui da papa Alessandro IV, morì ferocemente quale aveva vissuto, lacerandosi le ferite, e quindi il fratello e i parenti di lui furono fatti a pezzi, con orribili stragi.

      Nell'ebbrezza della vittoria tutte le città pensarono di rivendicarsi in libertà, e Verona, Vicenza, Padova, Treviso strinsero una lega di scambievole difesa e fratellanza. Ma fu un fuoco di paglia: e in breve si assoggettarono a nuovi padroni. Verona, per la prima, assalita dal guelfo conte di Sambonifacio nel 1261 elesse capitano del popolo Mastino della Scala, antico soldato e castellano d'Ezzelino. Ed essendo stato questi assassinato nel 1279, il popolo levatosi in armi trucidò i congiurati e mise nel luogo del morto il fratello di lui Alberto, che era podestà a Mantova. Alberto governò con mitezza, promosse l'industria e il commercio, abbellì e munì la città, e aggregò allo Stato Vicenza, Feltre, Belluno e altri luoghi. Gli succedettero prima il figlio Bartolomeo dal 1301 al 1304 e poscia i fratelli Alboino e Can Francesco, serbando sempre il titolo di capitani del popolo, finchè Arrigo VII nel 1312 li creò vicari imperiali.

      Questa famiglia che per l'innanzi non aveva avuto possessi nè titoli feudali, mentre un de' suoi era stato console nel 1147, fu molto probabilmente d'origine latina e cittadina; e la miglior tempra di alcuni suoi principi fa gradevole contrasto coll'efferatezza dei tiranni contemporanei. A Bartolomeo alludeva Dante, quando si faceva dire dal suo avo Cacciaguida:

      Lo primo tuo rifugio e il primo ostello

      Sarà la cortesia del Gran Lombardo

      Che in su la scala porta il santo uccello;

      Che in te avrà sì benigno riguardo

      Che del fare e del chieder, tra voi due,

      Fia primo quel che gli altri è più tardo.

      Il fratello e successore di lui, Alboino, fu uomo fiacco di mente e di corpo; nè il Poeta ebbe da lodarsene; onde gli dette una sdegnosa sferzata nel Convito; ma, per ammenda, esaltò oltremodo il terzo dei figliuoli legittimi d'Alberto, il quale (in grazia, a quanto narrasi, di certo sogno avuto dalla madre) si chiamò fin dalla nascita Cangrande.

      Non se ne sono ancor le genti accorte

      Per la novella età…

      Ed infatti aveva solo nove anni nel tempo in cui Dante finge


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<p>3</p>

Vedi la conferenza di R. Bonfadini, che è la prima di questa serie.