Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2. Alessandro Manzoni
dal novembre del '21 Giuseppe Carpani, uno degli arrabbiati, scriveva all'Acerbi, in quel tempo direttore della Biblioteca Italiana: «Manzoni avrebbe ingegno da fare cose bellissime e originali; battendo la via che batte, non farà che pazzie strampalate, sparse di qualche scintilla di luce, che si perde nelle tenebre del tutto»10. A Torino, l'ab. Michele Ponza, dal suo Annotatore Piemontese, scagliava questi fulmini: «Io reputo classico tutto ciò che in sè non ammette confusione di genere. Il giardino italiano è classico e l'inglese è romantico; la pianta ed il fabbricato di Torino è classico, quello di Milano romantico; l'abito nero con pantaloni bianchi è romantico, l'abito tutto nero con calzoni corti è classico; la musica di Cimarosa è classica, quella di Rossini romantica; le commedie di Destouches, di Regnard e di Goldoni sono classiche, quelle di Kotzebue e di altri scrittori nordofili, gallofili, stranofili sono romantiche; le tragedie d'Alfieri sono classiche, quelle del Manzoni sono romantiche. Dunque, dove è ordine, armonia, regolarità è classicismo; dove mancano queste condizioni è romanticismo». Giovita Scalvini scriveva: «La poesia romantica fu trovata da Cam figliuolo dì Noè. Ne' quaranta giorni che si trovò nell'arca, egli fece un poema dove descriveva tutto ciò che aveva d'intorno. Unì le idee più disparate, perchè vedeva presso sè l'agnello e il lupo; vedeva fuori i pesci sulle cime dei monti: la sua musica, le strida de' moribondi». E per mettere alla gogna i romantici ideava il dramma: La creazione del mondo e la fine, con questi attori: «Il caos, le stelle, le tenebre, la luce, il diavolo, il serpente. Gli animali di Daniele. Il teschio di Adamo. La cometa che accompagnò i re Magi. Il libro dei sette sigilli. Enos. Il cavallo della morte. Il bue, l'asino, il corvo». Scene: «La creazione: una conversazione patetica fra Eva e il serpente. Il diluvio. Un soliloquio del corvo sulla carogna che sta per beccare». Carlo Botta scriveva da Parigi: «Io ho in odio, peggiormente che le serpi, la peste che certi ragazzacci, vili schiavi delle idee forestiere, vanno via via seminando nella letteratura italiana. Io gli chiamo traditori dell'Italia, e veramente sono. Ma ciò procede, parte da superbia, parte da giudizio corrotto; superbia, in servitù di Caledonia e d'Ercinia, giudizio corrotto con impertinenza e sfacciataggine». Gli battè le mani il Giornale Arcadico di Roma: «Sì certo, o Carlo Botta, sfumerà questa infame contaminazione: tempo verrà, nè forse è lontano, che gl'italiani si vergogneranno di tanti romantici vituperii, levati ora alle stelle dai goffi imbrattacarte e ciarlatani di certi giornali: e frutto di questa vergogna sarà il gittare sdegnosamente alle fiamme tutto in un fascio quel bastardume d'inni, di tragedie, di romanzi, di che ora, parte ridono e parte fremono i veri sapienti della nazione»11.
A difesa de' Romantici si levò animoso Giuseppe Mazzini. «Gli uomini che in tutti i loro scritti anelano al perfezionamento dei loro concittadini; che avvampano per quanto di bello e sublime splende su questa terra; che hanno una lagrima per ogni sciagura che affligga la loro patria, un sorriso per ogni gioia che la rallegri; gli uomini a' quali il vero è fine, la natura e il cuore son mezzi; che trasportano il genio per vie non corrotte dalla imitazione, non guaste dalla servilità de' precetti; che a favole, vuote di senso per noi, sostituiscono una credenza che tragge l'animo a spaziare pei campi dell'infinito; gli uomini che s'aggirano religiosi tra le rovine dell'antica grandezza e dissotterrano a conforto dei nipoti ogni reliquia dei tempi trascorsi; questi uomini non tradiscon la patria; non son vili schiavi delle idee forestiere. Essi vogliono dare all'Italia una letteratura originale, nazionale; una letteratura che non sia un suono di musica fuggitivo, che ti molce l'orecchio, e trapassa; ma una interprete eloquente degli affetti, delle idee, dei bisogni, e del movimento sociale. Ogni secolo modifica potentemente gli uomini e le cose; ogni secolo imprime una direzione particolare all'umano intelletto… I veri Romantici non sono nè boreali, nè scozzesi; sono italiani, come Dante, quando fondava una letteratura, a cui non mancava di Romantico che il nome»12.
Il Rosmini fin dal maggio del '26 aveva scritto a don Antonio Soini: «Col Manzoni abbiamo parlato di voi. Che bontà di questo sommo poeta! Che affabilità! Che anima sparsa in sul volto tutto e in sulle labbra! Egli lavora nel suo romanzo assiduo. Temo assai della sua prosa; non dubito delle immagini e dei nobili sentimenti: di quello spirito non possono che uscire emule alla natura sublime, questi degni della nostra immensa destinazione. Ma la lingua? Non può crearsela questa lo spirito, alto quanto si voglia; gli bisogna ricorrere per essa alla dotta memoria; e temo che questa non sia stata arricchita per tempo di cotal mercè. Pare però che egli stesso lo senta; e se lo sente, lo studio assiduo, ancorchè un po' tardi, acconcerà forse la trascuranza dell'età prima». L'ab. Giuseppe Manuzzi, richiesto dal P. Antonio Cesari, che cosa pensassero a Firenze de' Promessi Sposi, gli rispose, suonarne «orrevolmente la fama, sì per l'invenzione, sì per la lingua, e sopratutto per la profondissima cognizione del cuore umano». Ma però soggiungeva: «Da alquanti brani ch'io ne lessi, la lingua certamente non è della migliore: anzi, secondo me, poco buona, e peggiore lo stile. Già voi sapete essere il Manzoni un forte campione dei romantici: di che non è da meravigliare se trova lodatori in gran numero. Leggeste voi nulla di suo? che ve ne pare? scrivetemene». Il Cesari gli rispose: «Ho letto i Promessi Sposi del Manzoni; mi ci parve trovare suoi difetti; quanto ad episodi o digressioni, che non s'innestano col fatto (è ciò che tiene il lettore forse a disagio); quanto a lingua, egli ha studiato i nostri maestri, ma i Comici sopratutto. Del resto nella eleganza dello scriver grave e naturale, egli è ancora addietro: ma credo che in poco, si farà grande scrittore. Nel colore, nella forza, nell'espressione tuttavia vale assai: nelle pitturette fiamminghe è maraviglioso; come altresì nel toccare le passioni, gli affetti e movimenti tutti del cuore, fino a' più minuti, mi par gran maestro. Ingegno ha altissimo, acuto e facondo assaissimo. De' suoi Inni il migliore mi sembra quello della Pentecoste: sono però sparsi tutti, qual più, qual meno, di concetti pellegrini, che egli solo era atto a trovare. Risplende poi la sua pietà e religione: e certo quel romanzo è un trionfo della virtù; e farà troppo più frutto, che nessun altro quaresimale». Il Cesari13 poi finiva una sua lettera all'ab. Gaetano Della Casa: «Mi direte degli Sposi del Manzoni e de' difetti che ci noterete; a vedere se ci scontriamo. Ma bellezze grandi!» Che cosa gli rispondesse non so. Giuseppe Pederzani, al quale pure ne aveva domandato, gli replicava: «Del Manzoni ho letto un tomo e mezzo il passato autunno; e più avanti non potetti, perchè chi mel prestò, sel portò poi a Milano, che fu il Rosmini prete. N'ebbi piacer molto, e certo ha tutti que' meriti che voi dite; tranne forse questo solo, che a voi sembra, rispetto alla lingua, avere egli studiato ne' classici più di quel che pare a me; ma io debbo stare al giudizio vostro. Anche mi son paruti troppo lunghi e noiosi quegli episodi: ma qui posso aver torto facilmente: imperciocchè comprendo bene, che in fine formano la materia dell'opera. Forse alla seconda lettura non mi parrà più così. A ogni modo, scritto assai dilettevole e buono».
Un altro pedante de' più arrabbiati, il corcirese Mario Pieri, così discorre de' Promessi Sposi nelle sue Memorie, che son rimaste inedite:
«Firenze, 15 agosto 1827. Ho letto i primi due capitoli (non potei averlo che per pochi momenti) del romanzo di A. Manzoni, del quale non dirò nulla fino a tanto che non l'avrò letto tutto, benchè in quegli stessi capitoli io abbia inciampato in più d'una cosa di cattivo gusto, senza dir dello stile, che mi sembrò così tra il milanese ed il francese. E questi godono fama di grandi scrittori!
«Firenze, 6 ottobre 1827. Leggo i Promessi Sposi, che ora mi stancano colla soverchia prolissità e colle minutissime descrizioni.
«7, domenica. Il viaggio di Renzo (nel romanzo del Manzoni), da Milano a Bergamo, è una bellissima cosa, e quivi stanno bene anche quelle minutezze e particolarità, che ci vengono tanto spesso innanzi fino al fastidio in quel libro. Grande ingegno è il Manzoni, ed è un gran peccato ch'egli voglia farsi il corifeo del falso gusto in Italia! Ho consumato gran parte del giorno (dalle due alle sei) alle Cascine, passeggiando e leggendo i Promessi Sposi. La mattina ho letto una prefazione, che il signor Camillo Ugoni pose alla testa d'una edizione parigina delle poesie del Manzoni, in cui quel letterato bresciano, romantico per la vita, delira, al solito, sui bisogni del nostro secolo, sul dramma storico, sull'arte e sulla natura, sopra una libertà ch'egli chiama Scolastica, ch'egli attribuisce all'Alfieri, e ai seguaci de' classici, e simili follie.
10
A Mario Pieri sapeva un po' duro che «il dottissimo e classico Niccolini siasi degnato di accostarsi ai Romantici; e tanto più che in quel tempo appunto correvano alcune sentenze del signor Capo-Romantico Manzoni, le quali facevano stomacare gli uomini di buon senno e sogghignare gli stolti giovinastri della sua scuola. Allorchè uscì, per esempio, quel bellissimo sermone del Monti in difesa della Mitologia, e contra coloro i quali volevano proscriverla, il signor Manzoni andava dicendo esser quello il ventottesimo
Anche a pp. 369-370 del tom. IV delle Opere, Firenze, Le Monnier, 1851, scaglia le sue folgori contro il Manzoni, e trova il
11
12
13
Il Cesari lasciò manoscritti alcuni Pensieri sui Promessi Sposi, che vedranno la luce ne' suoi