La notte del Commendatore. Barrili Anton Giulio

La notte del Commendatore - Barrili Anton Giulio


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e quel po' di bucato. Era un miracolo di risparmio, per verità. E non si è detto ancora ogni cosa. Su quella somma il povero studente di filosofia ci aveva fatto anche le male spese. Verbigrazia, era andato una volta al teatro Regio per sentire il Mosè, ed aveva pagato dieci lire un'opera di entomologia, scompleta, se vogliamo, ma corredata di molte tavole in rame. Imperocchè, bisogna sapere che la storia naturale era il debole di Filippo Bertone.

      Ma intanto, e con tutta la sua assegnatezza di quell'anno passato a Torino, egli doveva accorgersi che anche quattrocento lire erano un troppo grave sdruscio nelle entrate d'una famiglia che campava col lavoro quotidiano e che ci aveva per giunta due fanciulle da accasare. Ne aveva a ferrare dei muli, il povero babbo! Ne aveva a cavare del sangue, nella sua sussidiaria qualità di flebotomo!

      Pure, tanto era nel figlio l'amore allo studio, tanta era la onesta ambizione nel padre, che questi al finire delle vacanze, gli aveva posto in mano dugento lire, strappate a fatica da tutti i capi del bilancio domestico, e lo aveva rimandato a Torino.

      –Ci caveremo la fame coll'appetito;—aveva detto il vecchio con una fermezza da stoico;—ma tu diventerai un gran medico.—

      Il lettore di certo avrà capito che la storia naturale portava la medicina. Del resto, il figlio d'un flebotomo doveva diventar medico, essere il complemento del padre.

      Ed era tornato a Torino, mesto nel cuore, ma pieno di buona volontà e di coraggio. Il suo giubbone di color tabacco non gli faceva vergogna. Gli scaffali delle biblioteche, amicissimi suoi, nel rivederlo con quell'eterno giubbone, non glielo avrebbero mica apposto a delitto. Quanto al sogghigno della scolaresca, non gliene importava un bel nulla. Dopo tutto, egli era sempre così contegnoso e stava così poco in orecchio, che le risa dei compagni non giungevano a lui.

      Entrato nella capitale, che non contava più di rivedere, e presa la sua iscrizione pel primo anno di medicina, Filippo Bertone era andato ad ossequiare i suoi futuri professori. Si usava poco di farlo; epperò la sua visita tornava tanto più grata a quei parrucconi, in quanto se l'aspettavano meno. Uno di essi, buon vecchio e gran luminare dell'arte, lo aveva squadrato ben bene dal capo alle piante, e, vistolo così male in arnese, gli si era affezionato alla bella prima. Anche lui, il vecchio Esculapio, venuto a' suoi tempi dalla montagna, aveva cominciato così, e amava ricordarsene.

      –Studiate;—gli disse, con un suo accento tra burbero ed amorevole;—i poveri debbono insegnare questa virtù ai ricchi. Alla vostra età io vivevo di pane e cacio, e il cacio me lo portavo da casa. Per poter studiare di sera, avevo preso a pigione un sottoscala da un ciabattino, e la lucerna posata sul suo bischetto mi dava modo di leggere. Avete libri? No, me lo imagino. Guardate nella mia libreria; se ci trovate il fatto vostro, servitevi pure.

      Filippo Bertone, commosso da quella ruvida e schietta bontà, balbettava alcune parole di ringraziamento.

      –No, lasciate andare;—ripigliò il vecchio professore.—Farete lo stesso voi, quando verrà la vostra volta coi giovani, e tutti pari. Un'altra cosa; son solo, e la domenica pranzo, anzi no, desino alle tre. Una minestra e due piatti caldi; il convento non passa che questo. Ma anche la scuola di Salerno raccomanda la temperanza, mio caro.

      «Coena levis vel coena brevis, fit raro molesta; Magna nocet, medicina docet, res est manifesta».

      Quelle paterne accoglienze avevano un po' consolato il giovinetto. E lo avevano anche ammaestrato a fare un risparmio più grande nelle spese dello stomaco. La domenica era l'unico giorno in cui egli mangiasse. Gli altri giorni, una coppia di pani, con due soldi di cacio, era tutto il suo scialo. Se il Ferrero lo avesse saputo, egli che toscaneggiava volentieri, avrebbe potuto dire che Filippo Bertone viveva di buio, come le piattole.

      Ed ecco anche la ragione per cui Filippo Bertone era pallido e punto in carne. Figurarsi! Pane e cacio! E di quest'ultimo, a mala pena due soldi! È vero bensì che la non mai abbastanza lodata scuola di Salerno, tra tutte le altre belle sentenze, ha lasciato questa sul cacio:

      «Caseus est sanus quem dat avara manus».

      Ma è vero altresì che in nessun luogo del Regimen sanitatis si legge che non s'abbia a mangiare altro che cacio, per companatico; e ciò per sei giorni alla fila.

      Per fortuna, il nostro Filippo non aveva spinto l'imitazione fino ad allogarsi in un sottoscala. Se lo avesse trovato lì per lì, forse! Ma non lo aveva trovato; e fu bene per lui. Il suo bugigattolo a tetto pigliava almeno un po' d'aria sana. La finestra vedeva, come ho già detto, in un ampio cortile, sul di dietro di un palazzo, che era ancora per lui senza nome. Ci aveva a stare della gente titolata, in quel luogo, o almeno dei pezzi grossi, perchè ogni mattina si vedevano alla ringhiera del ballatoio due o tre servitori, intenti a spolverare abiti, o a sciorinare tappeti. Filippo Bertone non aveva vedute mai cose più belle. È vero che non ne aveva veduto neppure di somiglianti, o giù di lì.

      Poi, sulla gronda del tetto, a tocca e non tocca dal suo davanzale, crescevano tra le commettiture degli embrici, alcuni cespi di semprevivo e d'altre erbe di facile contentatura. Il botanico ci aveva la sua occupazione. E quella finestra gli piacque, e fece proponimento di passare le sue ore di svago piuttosto lassù, che per le vie di Torino. Già, con quel suo giubbone addosso, non c'era da godersela troppo in istrada. Così, salvo le ore di università e di biblioteca, che lo tenevano fuori di casa, il suo spasso era questo, di starsene qualche ora al balcone, a veder crescere le sue pianticelle, seminate dal caso, e a guardare i servitori del palazzo che davano le loro ripulite.

      E non era soltanto la gente di servizio che si facesse vedere laggiù. La seconda mattina che Filippo Bertone s'era affacciato al suo abbaino (perchè così e non altrimenti bisogna chiamarlo), da una di quelle finestre dei palazzo, che in tutto il rimanente della giornata soleva esser chiusa, gli era apparsa una bella signora, alta della persona, dal volto sereno, e di regolari fattezze; bianca come un giglio, o, se vi torna meglio, come una gardenia, di cui la sua carnagione aveva infatti i soavi riflessi perlati. L'aspetto a tutta prima poteva dirsi altero; ma il cuore doveva esser buono, e l'animo gentile, poichè ella si era fermata un tratto a guardare con affettuosa cura alcune pianticelle fiorite che ornavano il suo davanzale, e venuta poi nel vano della porta finestra che metteva sul ballatoio, aveva parlato con garbo amorevole ai servi, che stavano ad udirla con rispettosa attenzione. La bontà e la gentilezza non si nascondono; spirano dal volto, trapelano da ogni atto più lieve, e non è mestieri che si manifestino colle parole.

      La leggiadra apparizione era durata pochi minuti, troppo pochi pel giovane studente, che la contemplava ammirato, e con quella trepidanza inesplicabile, che cela qualche volta il presentimento.—Oh, se ella guardasse in alto!—pensava Filippo tra sè.—Darei non so che cosa, perchè ella guardasse in alto e mi lasciasse vedere i suoi occhi.

      E tuttavia, poco stante, per una di quelle contraddizioni così frequenti nelle anime timide, egli avrebbe voluto essere lontano, molto lontano, dal suo modesto davanzale. La signora aveva alzato gli occhi a guardare il cielo. Niente di più naturale, ma nel guardare il cielo i suoi occhi s'erano incontrati nell'abbaino e s'erano posati un istante sulla pallida faccia di Filippo Bertone.

      L'antichità, immaginosa e proclive a stampare in forme sensibili tutto ciò che le passava per la mente, ha significato in parecchi modi l'impressione fatta, anzi, per dire più veramente, il suggello lasciato sul volto da qualche aspetto gradito, o spiacevole, invocato o temuto. Questi a guardare una bella faccia, senz'altro difetto che i capegli un pochino arruffati (e azzuffati) sul fronte, ci rimaneva di sasso, laddove noi, gente più agguerrita, rimarremmo a mala pena di stucco; quegli, a vederne troppo da vicino un'altra, ne riportava per tutta la vita incomodi segni sul capo; un terzo ne usciva trasfigurato e faceva anco la sua volatina a mezz'aria.

      Io non dico come uscisse Filippo Bertone da quello incontro dei più begli occhi che ancora gli fosse toccato di vedere in questa valle di lacrime. Certo, il suo abbaino gli dovette parere un po' stretto e un po' basso, per contenere tanta felicità. E notate, anche la trasfigurazione ci fu; quella del sullodato abbaino, che dopo quel giorno apparve agli abitanti in excelsis, incoronato di fiori. Filippo Bertone avrebbe voluto metter là tutto il meglio della flora a lui nota, come a dire argirèe, ipomèe, ed altri stupendi esemplari della famiglia delle convolvulacee; nè avrebbe indietreggiato davanti al sacrifizio di qualche lira di più, per adornare le imposte del suo finestrino coi tralci rampicanti


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