La notte del Commendatore. Barrili Anton Giulio
scrivessimo il giornale in francese,—soggiunse egli poscia, piantandosi la fida lente nella incavatura dell'occhio destro, come faceva sempre quando volea darsi aria d'uomo d'assai,—sarebbe forse meglio, e il giornale sarebbe più répandu.
–È verissimo;—rispose il Ferrero:—ma non tutti abbiamo famigliare la lingua francese come il conte Candioli. Via, facciamo un tanto per uno, scriviamo il giornale in due lingue.
–Soit,—disse il contino;—chacun son goût.
–Pensiamo dunque al nome:—disse Balestra;—io propongo che si chiami L'Aurora.
–Io La Minerva;—gridò il classico Vigna.
–Il primo non dice niente, e l'altro vuol dir troppo; rispose il —Ferrero.—Cerchiamo ancora.
–Cerchiamo;—ripetè l'Ariberti.—Io vorrei un titolo che dicesse anche il luogo donde il giornale uscirà.
–Il Po;—soggiunse prontamente Balestra.
–Via;—saltò su il Vigna, dandogli sulla voce; lo si chiami almeno —L'Eridano.
–Sia pure L'Eridano e se ti piace, anche Il Bodinco, per andar cogli antichi.
–Pardon!—interruppe il contino, stendendo la mano nel crocchio, come per annunziare l'arrivo d'una idea.—È già forse stabilito che il titolo debba essere in italiano?
–Ma…..—disse il Vigna sconcertato.
–Ma…—ripeterono gli altri, non sapendo che pesci pigliare.
–Il signor conte ha ragione;—aggiunse tosto il Ferrero, che era l'uomo dei ripieghi,—ci vuole un titolo che corrisponda alla cosa. Noi che facciamo? Un giornale in italiano e in francese. Ci vuol dunque un titolo bilingue.
–Sicuro, bilingue! Ah, ce diable de Ferrero! Il n'y a que lui pour avoir de ces idées là.
–Grazie, signor conte! Ed ora che ci penso, il titolo è bell'è trovato; un titolo che salva tutto; La Dora.
–Oh diavolo! la Dora!—esclamò il Vigna, che non si raccapezzava.—E non è forse un nome italiano?
–Bravo! E chi ti dice di no? E Dora non può essere femminile in francese, com'è in italiano?
–C'est juste; puisque c'est une rivière…—aggiunse il conte Candioli con aria di trionfatore romano.
–Ah bene! benissimo!—gridarono tutti in coro. Une rivière! Diciamo —dunque: La Dora.
–E sarà settimanale?
–No, c'è troppo da fare, io sto per un fascicolo al mese.
–Sentite, amici miei; diamola nel mezzo e usciamo fuori per quindicine. Noi si ha tempo a scrivere e gli altri hanno tempo a leggere.—
Qui, gettate le fondamenta, cominciarono le osservazioni minute, intorno ai necessari congegni di ordinamento interno; alle spese, ai carichi di amministrazione e a tutti gli altri amminicoli, sui quali il signor Conte era invitato a dire il suo nobile e riverito parere.
Quanto alle materie, non c'era fortunatamente da stillarsi il cervello. Gli scrittori abbondavano, e tra cattivo e mediocre ognuno ci aveva un sacco e sette sporte da mettere in comune. Ariberti incominciava co' suoi versi d'amore, inspirati dalla figlia del droghiere di Dogliani, ma che, con qualche ritoccatina, potevano tirarsi dal biondo al bruno, passare per roba di più prossima e più aristocratica derivazione. Ferrero dava fuori il suo viaggio in Toscana, col titolo pomposo: Tre mesi sull'Arno. Veramente, non c'era stato che un mese, e nemmeno nella incomoda postura del colosso di Rodi; ma già lo ha detto Orazio: Pictoribus atque poëtis, quidlibet audendi semper fuit aequa potestas. La qual cosa vuol dire che pittori e poeti ebbero sempre la licenza di uscire dal seminato, e che Orazio Flacco, buon'anima sua, era un confessore di manica larga. Il Vigna, poi, ci aveva il suo capitolo sugli amori di Tibullo, e poteva tirare innanzi sullo stesso metro, mettendo in prosa quei di Catullo e di Properzio. Balestra ci aveva la canzone in pronto; un altro lo studio sui Nibelunghi, quella roba da mangiare che sapete; finalmente il Contino si disponeva a ponzare le sue note parigine, che doveano riuscire la pièce de résistance di quella indigesta accozzaglia.
E il programma? oh non dubitate, pensarono anche al programma; anzi, fu stabilito di dettarlo in francese. Non era un omaggio alla patria; ma come fare, perdinci? Il signor conte Candioli, un figlio di ministro, che si degnava di praticare con loro, e senza del quale addio speranza di far uscire il giornale, aveva fissato l'animo nel suo francese e non c'era stato più caso di rimuoverlo.
–Ah, lo dicevo io!—gridò tutto ad un tratto il Ferrero, lasciando a mezzo una sua proposta che non lo finiva poi troppo.—Il Bertone è a Torino. Guardatelo, là, sotto i portici di rimpetto.
–Dove?
–Sotto l'arcata, davanti a quella mostra di libri vecchi. Vuol fare un bel guadagno il venditore, quest'oggi!—
Gli occhi dei giovani erano corsi laggiù, dove accennava il Ferrero. Proprio com'egli diceva, laggiù, davanti alle quattro assi che formavano la bottega del libraio da strapazzo, si era fermato da pochi minuti un giovane pallido, punto in carne e assai male in arnese, quantunque non lo si potesse dire uno sciatto. La camicia era bianca di bucato; ma pur troppo non lasciava vedere i solini al collo nè i polsini alle mani. Il giubbone di un vecchio panno color tabacco, aveva un bel mostrarsi spazzolato di fresco; oltre che in quella sua continua battaglia colla spazzola ci aveva perso i peli e guadagnato un lustro particolare, si vedeva dal taglio che doveva aver servito d'abito da nozze al nonno di chi lo indossava. Il resto del vestiario era in conformità del capo principale, e non occorre dirne altro.
Anche il contino Candioli volse un'occhiata a quel poveretto e arricciò il naso, come potete immaginare.
–Comment?—esclamò egli.—Vous vous occupez de pareille engeance?
–Non faccia caso;—rispose il Ferrero.—È stato un nostro compagno in filosofia, un amico dell'Ariberti.
–Ve l'ho già detto una volta; mio come vostro!—gridò l'Ariberti seccato.
–Eh via, non andare in collera! Si dice questo perchè tu lo conoscevi prima di noi. Del resto, non c'è nessun male. Si può avere avuto a che fare con molta gente, a questo mondo; tutto sta a non strofinarcisi troppo.
–Per non appiccicarsi l'untume;—soggiunse Balestra, in mezzo alle risa degli altri.
Frattanto il giovane che era argomento di tante chiacchiere, dopo aver scartabellato parecchi volumi e comperatone uno con pochi soldi che cavò dal taschino della sottoveste, si mosse di sotto l'arcata per traversare la via, tenendo sotto il porticato di destra proprio a filo del caffè dove stavano seduti i suoi critici.
–Che voglia entrar qua?—domandò tra spaventato e scherzoso il Ferrero.—Io prendo il portante.—
Ma il giovane non aveva di queste fantasie signorili. Entrato sotto i portici, piegò con passo frettoloso a mancina. Per altro, nel passare che fece davanti alla finestra, presso cui erano seduti costoro, dovette certamente vederli attraverso i cristalli; e bene lo dimostrò la timida occhiata che volse da quella banda, come il suo tirar lungo senza un sorriso, o un cenno del capo, indicò in pari tempo che egli sentiva la miseria sua, non meno che la loro grandezza. Il poveretto ha la vista acuta. Del resto, ci voleva poco a capire, anche senza l'ingegno di Filippo Bertone, che quelli là appartenevano alla schiera dei felici, entrati per la scala d'oro nel mondo, e che non voleva dir nulla, se il caso li aveva avvicinati a lui per qualche anno su d'una panca di scuola.
Gli allegri giovani, quasi tutti suoi compagni di studio, gli avevano dato una superba guardata, senza scomodarsi altrimenti a salutarlo. Anche l'Ariberti, che era il più esposto, perchè più vicino ai cristalli, era rimasto cogli occhi in aria, facendo le viste di badare a tutt'altro.
–Sempre i medesimi stracci!—disse il Ferrero, che era di tutti il più accanito contro il povero Bertone.—Che ve ne pare, amici? Facciamo una colletta per comperargli un soprabito?
–Ah, ah! T'intenerisci per