La notte del Commendatore. Barrili Anton Giulio
notava ogni cosa.—Orsù, dunque, e beva caldo.—
Il nostro gentiluomo prese la chicchera dalle mani dell'ospite e la guardò, rimanendo un poco perplesso. Ed egli non aveva po' poi tutti i torti; che simili casi non occorrono due volte nella vita d'un uomo. Volse quindi un'occhiata in giro; vide là in fondo alla camera il suo letto a sopraccielo, che lo avrebbe aspettato invano colla rimboccatura tirata in giù sulla proda e colla camicia da notte spiegata; pensò alla signora Zita, che avrebbe fatto le meraviglie a non vederlo la mattina vegnente… Ma sì, che cosa avrebbe detto e pensato la signora Zita di lui? E come l'avrebbe rimbrodolata quell'altro? Come avrebbe combinato le cose presenti colle future, per modo…
Basta; o non era affar suo? e non doveva pensarci lui?
Così il buon Commendatore mise l'animo in pace, e alzata la chicchera, accostò l'orlo alle labbra, e bevve timidamente il primo sorso. Egli temeva diffatti che la bevanda dovesse scottare. Ma appena era tiepida; di guisa che egli in una seconda sorsata mandò giù il rimanente. Per altro, quella volta il suo tè gli seppe d'amaro. Sfido io; senza zucchero!
Fu quello, dopo tutto, un senso fugace del suo palato. Un gran mutamento si operava frattanto in tutto il suo essere. Il sangue scorreva gagliardo nelle arterie; la persona si ergeva snella sul fianco; il viso era fresco e lucente; gli occhi scintillavano; i muscoli tutti brillavano, come fossero molle di acciaio. Intanto, l'ospite suo, la camera, tutti i muti testimoni della sua triste vecchiaia, erano scomparsi. Aveva diciott'anni nè più nè meno. E, scambio della chicchera (dov'era andata la chicchera?), il signor Commendatore si trovò fra le mani un pezzo di carta, coi fregi sui margini e un bollo largo tanto, in cui si diceva che il signor Niccolò Ariberti aveva superato il giorno addietro con lode la prova d'ammissione agli studi legali nella università di Torino.
–To'!—diss'egli ammirato.—Nell'università di Torino, dove per l'appunto ho fatto i miei studi? Non mi dispiace.—
Fu questo l'ultimo anello che congiungesse il signor Commendatore alla sua morta vecchiezza. Da quel punto egli non ebbe più memoria di nulla; entrava a gonfie vele nel mare della sua gioventù. Diciott'anni! L'età dell'oro!
CAPITOLO II
Dove si sente la primavera ad autunno inoltrato.
Il sole, quantunque si fosse a mezzo novembre e sotto le Alpi, amiche degl'inverni precoci, non era mai parso così splendido come quel giorno al nostro adolescente. Egli era allegro, felice, beato, e per due buone ragioni.
Cominciamo dalla prima, e dalla più vicina eziandio. Egli non aveva più, per quell'anno, da pensare agli esami.
Intenda la sua beatitudine chiunque, tra' miei più giovani lettori, ne ha ancora parecchi da mandar giù e griderebbe volentieri: transeat a me calix iste, se nulla nulla sperasse di essere esaudito. In verità, gli è un grosso guaio cotesto, di dover rispondere sì o no intorno ad una materia che non si è studiata, e ad uomini che qualche volta ne sanno quanto noi, cioè a dire pochino, pochino. Aggiungete che qualche volta il sì ed il no, anco a indovinarla, non bastano. Ci sono dei professori assetati, i quali hanno fatto il conto colla statistica alla mano, e pensano che, a questi patti, stando neutrali il diavolo e i santi, il cinquanta per cento dei giovani vi rispondono in tono. Ora questo non va bene; pretendono che l'alunno risponda per filo e per segno; che sostenga il suo sì, o il suo no, corredandolo di documenti e di prove.
Questi, s'intende, sono i professori birboni, che si stimano poi, ed ai quali si manderanno volentieri i propri figli, se ne saranno capitati, e se i professori avranno avuta la pazienza di aspettarli; ma che pel momento si mandano a tutti i settecentomila settecento e settantasette diavoli, nel paternostro della bertuccia.
In simili casi, al povero studente (povero perchè della sua scienza non possedeva neanche gli spiccioli) gli bisognava destreggiarsi come un pilota in burrasca, e in mare seminato di scogli. La reticenza, così lodata una volta dal suo maestro fra tutte le figure retoriche, gli sarebbe rinfacciata come una colpa. Ad altro, ad altro gli conviene far capo; altri spedienti, altri artifizi gli occorrono. Figuratevi che egli ha da diventare anche fisonomista, e cogliere tra le grinze del volto, perfino nel modo di tenere gli occhiali, il segreto dei mutevoli umori del suo Radamanto.
Un mio amico andava più oltre. Corrompeva la serva del professore, ingenua creatura che credeva agli orecchini di princisbecco, per sapere se quella notte il bravo uomo aveva dormito tutte le sue ore, se i bimbi erano sani, se la signora non gli aveva fatto scene; e si regolava in conformità dell'avviso.
Dunque, tornando alla contentezza del signor Nicolino, la prima ragione era quella degli esami superati. E l'altra? L'altra era questa: che il signor Nicolino era a Torino, senza sopraccapi, e che non doveva tornar più per un pezzo a Dogliani. Non già che amasse poco la famiglia; ma quella vita campagnuola, Dio santo, e dopo quattro mesi di uggiose vacanze!…
Giudicatene voi. La mattina, tutti in casa si alzavano per tempo; la gente di servizio al canto del gallo, perchè il pane lo s'impastava in casa, perchè c'erano i pavimenti da scopare, le masserizie da ripulire, le stoviglie da rigovernare, e via discorrendo; il signor Amedeo, padre, una mezz'ora dopo, per uscire sui campi, a dar l'occhiata del padrone ai mezzadri; la signora Caterina, madre, subito dopo il marito, per sopraintendere alle faccende di casa, ma anzitutto per farlo star su, lui, il dormiglione, che tra una chiamata e l'altra di quella santa donna trovava ancora il modo di schiacciare il sonnellin dell'oro.
Si vestiva a malincuore; usciva a stiracchiarsi ed a sbadigliare nell'orto, per farsi cantare da una fante chiassosa il solito ritornello:—Chi sbadiglia non può mentire; o gli ha fame, o vuol dormire; o gli ha qualche mal passato; o gli è forte innamorato.—
–Tutte e quattro queste cose;—rispondeva egli, mezzo burbero e mezzo faceto;—ho sonno, ho fame, ho pensato che oggi sarà come ieri, e sono innamorato, ma non di te. Va, e mettimi un par d'uova nel tegamino.
–Eh, lo so che non è innamorato di me! Non ho già le mani nello zucchero, io!
–Che cosa intendi di dire, sciocca?
–Dico, signor padroncino, che dello zucchero si fanno i confetti, e che il droghiere….
–Piglia questo, di confetti!—gridò egli, facendosi rosso in volto come una ciliegia, e andandole contro per assestarle un mezzo scapaccione.
Ma quella linguacciuta non istette ad aspettarlo, e corse per l'ova del padroncino, contenta di aver mostrato colla sua stoccatina che la sapeva lunga sul conto suo.
Finita la colazione e data una scorsa in paese, tanto per digerire, o per giungere fin sui paraggi della drogheria, dove con aria di parere e non parere incominciava a molestarsi colle dita il solino, per aver modo di voltarsi e sbirciare in bottega, gli bisognava chiudersi nella sua camera, a smagrire sui libri.
La mamma, se a caso lo vedeva girandolar colle mani alla cintola, era sempre lì coll'antifona:
–Suvvia, Nicolino; non hai fatto ancor nulla quest'oggi. Vedi, tuo padre va in collera, e brontola sempre con me. Per amor mio, va a lavorare, che tu non perda il novembre quel che sapevi in agosto.
Nicolino andava storcendo un pochino le labbra, ma andava. Ridottosi nella sua camera, e piantati i gomiti sullo scrittoio, masticava, secondo il bisogno, un passo di Tito Livio, o un teorema di geometria; ma queste cose gli conciliavano maledettamente il sonno, e per cacciarlo via, Nicolino mutava registro, scombiccherava un acrostico, o tirava qui un tocco in penna, tutto facce e profili di parrochi.
Onde tanto accanimento contro questa degnissima sottospecie dell'ordine dei primati? Il nostro Nicolino non poteva patire il parroco di San Quirico che veniva ogni sera in casa a far la partita di tarocchi, e che ogni sera regolarmente, col pretesto di volergli un gran bene, gli faceva un interrogatorio di bassa latinità. Si noti, a scusa di Nicolino, che egli era già a Cicerone, e il buon prete s'era incocciato nell'Epitome. Sbadataggine? Impotenza? Arcano che Don Silvestre ha recato con sè sotto le umide volte del presbiterio.
Lo studio quotidiano finiva come doveva finire, con una brava dormita a gomitello. Dopo due ore di quella applicazione, il ragazzo sgattaiolava nella vigna, per far ora di pranzo. Usava per altro la precauzione di portarsi un libro sotto il braccio, per non lasciar credere che andasse a caccia di grilli, o,