L'Antica Stirpe. Michele Amabilino

L'Antica Stirpe - Michele  Amabilino


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il cui abitacolo era fortemente illuminato. C’erano tanti congegni strani, comandi che vagamente somigliavano a quelli di una cabina di aereo o a quella di un grosso mezzo navale. Ero legato con dei braccioli ai lati di un materassino imbottito e verticale, avevo uno scafandro trasparente sulla testa e tanti tubicini colorati all’altezza della bocca che comunicavano con un rilievo metallico e tondeggiante. Non potevo muovermi ed ero perfettamente cosciente della situazione. Al mio fianco Mario e Gilda anch’essi legati e impotenti, privi di sensi, nella mia stessa condizione. Non c’erano sedili per l’equipaggio del mezzo aereo, solo due sagome scure intente a incomprensibili manovre di pilotaggio. C’erano dei vetri alle pareti, abbrunati, che non mi consentivano una visuale esterna al veivolo. Eravamo in movimento.

      Mi trovavo su quello strano veivolo e mi resi conto che la destinazione non era di questo mondo. Osservai meglio i due piloti dell’aeromobile e un senso di abissale terrore mi prese e mi fece rabbrividire. Erano esseri mostruosi, indossavano un’armatura o una tuta, i volti erano celati da uno scafandro o da una maschera, integrale e... non avevano niente di umano. Notai i particolari del volto appena abbozzati. Mancavano gli occhi, il naso e la bocca. Avevano dei piccoli fori o fenditure. Non avevano orecchie e al loro posto soltanto piccoli rilievi retinati.

      Si muovevano lentamente e parlavano tra di loro in una lingua incomprensibile. Cercai di indovinare cosa si celasse dietro quella loro maschera e... rabbrividii dal terrore. Dove ci stavano portando? Mi chiesi il motivo di quel rapimento e conclusi che esso non prometteva niente di buono. Esperimenti? Cannibalismo? Schiavismo? Questo pensai visto la bio-diversità dei soggetti, della loro provenienza e della loro tecnologia. La mia vita e quella dei miei amici erano nelle mani di quei mostri. Cercai di riordinare le idee, la cosa non era facile. La destinazione non era di questa Terra. Non avremmo più rivisto il nostro mondo. Lo sconforto si impadronì di me ma nonostante i cupi pensieri non riuscii a piangere. Continuai a fissare i miei amici, i quali dormivano a causa di una qualche sostanza ingerita o per il trauma subito.

      Casualmente diedi un’occhiata al mio orologio da polso e mi accorsi con sorpresa che si era guastato. Le lancette erano compietamente saltate. Nonostante questo, forse per incredulità, lo portai all’orecchio (sentivo i suoni anche con quello scafandro sulla testa) ' ma non udii nulla. Scuotendolo, sentii dal rumore prodotto che tutto il meccanismo era esploso per cause sconosciute. Uno dei piloti del veivolo, accortosi dei miei movimenti, si avvicinò per slacciarmi i polsi e togliermi lo scafandro con i tubicini. Gli sentii dire qualcosa ma non capii la lingua. Non appena fui liberato da quello scafandro ingombrante, scoprii respirando che in quel veivolo c’era aria ma la forte tensione nervosa mi tradì e caddi sul pavimento lentamente come un sacco vuoto, privo di forze.

      Non appena mi ripresi, cercai di tranquillizzarmi ma nonostante questo non potei fare a meno di rannicchiarmi in un angolo come un bambino, spaventato. Rimasi in quella posizione, immobile, per un tempo che a me parve infinito, osservai attentamente l’interno dell’astronave e i suoi occupanti, cercai di darmi un contegno razionalizzando le mie azioni e i miei pensieri. Mi ponevo lentamente delle domande a cui non sapevo dare risposte, occorreva che sapessi qualcosa sul mio destino e quello dei miei compagni.

      Cercando di vincere la mia repulsione verso i piloti del veivolo rivolsi la parola a uno di essi e mi accorsi così quanto terrore avevo dentro perché la mia voce mi sembrò un balbettio goffo e titubante.

      «Dove ci portate?»

      L’essere alieno, guardandomi, pronunciò qualcosa di incomprensibile seguito con un intervallo da una frase in traduzione ma dalla tonalità metallica e, al tempo stesso, glaciale.

      «Silenzio, non devi disturbare!»

      Capii l’ostilità di questi e mi rassegnai al silenzio ma cominciai a pensare e la prima cosa che mi venne in mente fu che l’alieno possedeva di certo un’apparecchiatura di traduzione dei linguaggi.

      Pensai ancora alla tecnologia in possesso e ne dedussi un certo grado di civiltà. Questa conclusione mi portò ancora a un tipo di ragionamento indiretto.

      Forse non sono esseri sanguinari.’ Un nuovo pensiero mi balenò nella mente e così cominciai a sviluppare una serie di ipotesi su di loro.

      Il primo interrogativo era in relazione all’astronave. Era troppo piccola per lunghi viaggi, quindi il luogo della loro provenienza non doveva essere molto distante dalla Terra. Più tardi mi resi conto come le mie argomentazioni fossero sbagliate e del perché di questo.

      Non sapevo molto di scienza, il mio grado di istruzione riguardava la natura dei terreni, i fertilizzanti, gli antiparassitari e le coltivazioni. ‘Il Sistema Solare è immenso’ pensavo, quindi il viaggio era impossibile... e allora, a quale pianeta eravamo diretti?

      Valutai l’ipotesi di una ribellione e del dirottamento dell’astronave ma la scartai perché era un’idea folle, senza speranza. Anche a riunire le nostre povere forze io, Mario e Gilda non avremmo potuto pilotare e invertire la rotta verso la Terra perché un’astronave non è una macchina o un trattore. Quei mostri ci avevano rapiti per scopi che ignoravamo, di certo non avremmo più rivisto la Terra. Ma dove eravamo? Impossibile stabilirlo.

      I miei amici ripresero conoscenza e io li vidi atterriti, mostravano segni di crisi respiratoria, così intervenne l’alieno che staccò l’apparecchiatura. Ancora più terrorizzati per la sua vicinanza (e lo vedevo dai loro occhi e dal loro pianto disperato) i poveretti si raggomitolarono in un angolo del pavimento dell’astronave e lì rimasero nonostante cercassi di tranquillizzarli. I due alieni parlavano tra di loro nella loro lingua attenti ai comandi e non sembravano risentissero delle nostre sofferenze. Andavano avanti e indietro senza stancarsi un po’. Un fatto curioso: non c’erano sedili per i due alieni e questo particolare mi lasciò veramente stupito.

      Non riuscimmo ad avere un'idea della durata della nostra prigionia, restammo seduti per terra a lungo.

      Dopo chissà quanto tempo di immobilità sentii un formicolio alle braccia, alle mani e alle gambe e così, per riattivare la circolazione del sangue, gli alieni ci videro battere le mani, scalciare. Evidentemente era già noto questo comportamento umano perché vennero verso di noi.

      «Siete stanchi? Volete del “carburante” per il vostro organismo?» disse uno di essi traducendo dalla lingua aliena.

      Ci guardammo guardinghi. Non sapevamo cosa rispondere. Capimmo il significato della parola “carburante” anche se questo termine ci sembrò non appropriato. Accettammo a malincuore dell’acqua e del cibo che consisteva in una poltiglia di colore verde e dal gusto dolciastro.

      «È sintetico» dissero con riferimento al cibo «ma per voi biocompatibile.» Cambiando discorso, come per rassicurarci aggiunsero: «Siamo vicini alla meta ormai...»

      Vicino alla meta, ripetei mentalmente ma non riuscivo a capire il significato che loro davano a quelle parole. Un pianeta? Ma quale? Le poche nozioni di astronomia imparate a scuola mi informavano di pianeti a noi vicini inospitali. Il nostro Sistema Solare contava soltanto un solo luogo adatto alla vita, la Terra, tutto il resto era una somma di mondi infuocati, sterili, ghiacciati e gassosi, luoghi senza vita. E poi c’era da considerare la grande distanza tra un mondo e un altro. Un abisso di tempo, un viaggio senza fine. Impossibile esplorare tutto il Sistema Solare. La meta, ma quale meta, mi ripetevo e sentivo in me un vortice di pensieri che mi stordivano.

      Con nostra grande sorpresa gli alieni schiacciarono dei bottoni e le pareti interne dell’astronave si ritirarono rivelando un panorama che toglieva il respiro. Dai vetri, fuori era tutto nero come l’inchiostro, un abisso di vuoto siderale che dava le vertigini. Era evidente che i piloti manovrassero con sistemi strumentali e non a vista. L’astronave rallentò fino a fermarsi. Dai finestrini apparvero le sagome gigantesche di altre astronavi dalla forma aerodinamica, tutte illuminate. Erano tanto grandi da lasciare imbambolati, come e più grandi delle città terrestri. Erano due e, nelle loro vicinanze, sfrecciavano mezzi spaziali di ridotte dimensioni simili nella forma a quella in cui eravamo a bordo che entravano tutti nella pancia di quelle mostruosità dello spazio. Le più grandi ipotizzai essere come le astronavi madre in grado di viaggiare negli spazi siderali e quelle più piccole, navette intente in operazioni che ricordavano quelle effettuate dalle scialuppe di un grosso mezzo navale.


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