L'Antica Stirpe. Michele Amabilino
acqua, in contenitori cilindrici che sembravano di metallo ma leggeri e al tempo stesso resistenti agli urti.
Ci riunirono in una grande stanza e poche volte riuscii a esplorare altri vani dell’astronave che mi parve così gigantesca da superare la più grande nave corazzata. Mi ricordo ancora quando la vidi dall’esterno, fuori nella spazio, così immensa da togliere il fiato... L’interno sembrava senza limiti, stranamente dotata di infrastrutture, di congegni da non poter essere paragonata a nessun mezzo aereo o navale, e poi la quantità di alieni, eserciti interi indaffarati chissà a quali lavori, il tutto dava l’impressione di una città nello spazio. Quello che colpiva in quella massa enorme era il rumore dei motori ma anche delle calzature dei soldati sul pavimento metallico, il ronzio sinistro proveniente da dietro qualche pannello alle pareti o il vociare confuso, incomprensibile di quella gente. Piena di scale, di montacarichi, di ascensori, di tubi posizionati a livello dei tetti, dei corridoi, delle carlinghe e poi c’erano quei curiosi tubicini trasparenti pieni di fasci di luce che vi correvano all’interno, che attraversavano i giganteschi vani e i vari piani dell’astronave.
Dimenticai almeno per il momento l’interesse per la struttura dell’astronave e mi concentrai sul destino di noi tutti futuri coloni di un ignoto pianeta. Eravamo tutti adulti, non c’erano bambini come se gli alieni non fossero interessati a umani troppo giovani. Mi chiesi il motivo di questo tipo di selezione. Forse non consideravano i bambini idonei per i loro esperimenti di inseminazione? Non trovavo altra spiegazione che questa ipotesi ma forse “loro” erano estranei alla logica terrestre e poi era così diffìcile ipotizzare che fossero mammiferi.
‘Chissà come ragionano’ mi ripetei. ‘Sono mostri, soltanto quello.’
Il mio amico Mario accarezzava di tanto in tanto i capelli della sua ragazza e parlava dolcemente a voce bassa, cercava di tranquillizzarla ignorando gli sguardi curiosi degli altri terrestri che occupavano con noi quel vano dell’astronave. Fino a quel momento nessuno ci aveva rivolto la parola, poi un tipo quasi vecchio ci avvicinò con fare amichevole. Parlava un italiano con forte accento straniero, disse di essere tedesco ma di conoscere qualche lingua perché insegnante. Ci raccontò le fasi del suo rapimento, gli affetti perduti, le avversità della guerra che volgeva al termine verso la disfatta del regime tedesco e di altri fatti di ordinaria vita. Ascoltandolo come uomo, mi resi conto di non provare alcun odio verso di lui, egli era un tedesco, sì nemico degli italiani ma nella nostra situazione tutto questo aveva perduto qualsiasi significato. Era anche lui prigioniero di una potenza molto superiore a quella della sua nazione: per questo motivo lo considerai alla pari di un qualsiasi uomo, di qualsiasi etnia, di qualsiasi politica. Lassù nello spazio, a miliardi di chilometri dalla Terra ogni attrito, ogni diversità spariva di fronte all'ignoto e all’estrema fragilità umana.
C’era qualche altro tedesco e poi altre etnie che non mi pare il caso di elencare. Il viaggio durò parecchio, forse giorni e giorni. Non riuscendo a quantificare il tempo trascorso consideravamo il numero dei pasti e delle ore di giorno, ipotizzando in modo approssimativo il tempo trascorso.
Ci trovavamo tutti riuniti in un vano, uomini e donne, vecchi e giovani, con le nostre fragilità. Dovevamo dimenticare il senso del pudore e le intimità anche quelle relative ai bisogni corporali.
Gli alieni sembravano non conoscere il significato di certe regole come l’igiene, le intimità e gli altri diritti dell’uomo. Nonostante la grandiosità dei loro mezzi, del loro grado di civiltà, erano insensibili a taluni diritti, a talune priorità. Questo fatto lo avevamo percepito tutti e a tutti non ci era permesso di lamentarci.
Mentre stavamo tutti a riflettere sulle comuni sciagure, un gruppetto di alieni ci fece visita. Erano in tre e tra questi proprio quello che sembrava un capo, che aveva quel distintivo, che ci aveva rapiti. Si rivolsero proprio a noi con fare brusco, ci invitarono a seguirli. Io, Mario e Gilda provammo ancora maggior paura, temendo chissà cosa, ricordo il mio respiro affannoso, il battito impazzito del mio cuore. Ci portarono in un laboratorio, almeno così sembrava, ci stesero su delle cuccette, ci legarono, poi ci fecero entrare con un movimento automatico della cuccetta all’interno di una macchina che sembrava un forno. Al suo interno si accendevano luci e si udivano preoccupanti ronzìi.
Dopo questa esperienza, ci tirarono fuori sempre in modo automatico, ci liberarono e l’alieno con il distintivo disse: «Terrestri, ora vi toglieremo un po’ della “linfa” vitale dal braccio e alcune cellule della pelle per i nostri studi, nient’altro.»
Osservai da vicino quel suo viso appena abbozzato dalla maschera, scrutai quei piccoli fori all’altezza degli occhi come per incontrare il suo sguardo, poi osservai il tronco dell’alieno che sembrava non umano ma piuttosto la corazza chitinosa di un insetto, il suo addome, le estremità tipiche degli insetti o non so di che altro, mi soffermai a riflettere. Mentre tornavamo con gli altri terrestri prigionieri apparivo assente, come se inseguissi chissà quali tortuosi ragionamenti. L’illuminazione, quella idea fulminante che chiarisce qualcosa, quella lampadina che sembra si accenda nella testa all’improvviso o dopo chissà quanti periodi di stasi interpretativa, l’illuminazione venne in un lampo e mi lasciò stupefatto.
Ma l’idea mi sembrò assurda, così assurda da non potermi fidare, così, per cercare comprensione nell’altrui intelligenza, rivolsi la parola ai miei amici, i quali erano assenti, quasi intorpiditi dalla stanchezza e da tutti gli stress della prigionia.
«Non è un vivente» esordii e la voce mi tremava per l’emozione. «Non è un vivente» ripetei con maggiore forza nelle parole.
Mario e Gilda mi guardarono con sospetto come chi scopre un’anomalia comportamentale.
«Cominci a dare i numeri?» mi chiese Mario visibilmente impressionato. «Chi non è un vivente?»
«Loro, gli alieni» chiarii io balbettando per la forte emozione.
«E che cosa sono?» chiese Mario.
«Fantasmi?» aggiunse Gilda prendendomi in giro.
«No di certo, soltanto... soltanto dei robot» aggiunsi come uno che si trovi al limite della sopportazione e tiri fuori la verità che conosce, a lungo taciuta.
«Dei robot, tutti questi eserciti di alieni... dei robot?» Mario era sarcastico, lo si leggeva negli occhi, nel ghigno. Quel ghigno che però presto sparì, perché l’amico evidentemente aveva iniziato a pensare. Allora il suo sguardo si fece cupo.
«Forse, forse non hai torto. Sono tutti come delle copie, come dei sigari della stessa marca...»
Gilda da parte sua si lasciò sfuggire un grido di spavento, subito soffocato, poi riprendendosi un po’ dalla sorpresa, dalla scoperta così sensazionale ma maggiormente allarmata: «Dei robot che manovrano gigantesche astronavi e noi in balia delle macchine...»
Chiamai il tedesco e segretamente gli rivelai la mia scoperta. Gli dissi di passare la voce a quanti erano in grado di capirlo. Ora eravamo in molti a conoscere la verità, gli altri di altre etnie, che non riuscivano a capirci per ragioni di linguaggio, ci guardavano preoccupati.
Il tempo era diventato piatto, inesistente, quasi artificioso e non riuscivamo a farne una stima, neppure approssimativa.
Poco più tardi rividi quell’essere con il distintivo che sembrava un capo. Allora mi avvicinai a lui e, forse per lo stress, gli dissi sprezzante: «Tu... non sei un vivente.»
L’alieno, sorpreso di quella, frase, indugiò a lungo, guardandomi diritto negli occhi, poi la sua voce metallica tuonò: «Come lo hai capito?»
«Non respiri... non sei un vivente» spiegai. «Che cosa sei?»
La risposta non si fece attendere.
«Non sono un organismo biologico ma un’intelligenza artificiale.»
Io, incuriosito, ribattei: «Parlami dei tuoi costruttori...»
«I miei Creatori - li chiamò proprio così - mi hanno assemblato in un laboratorio con una potenzialità intellettiva superiore agli altri miei simili. I Creatori inoltre diedero vita ai soldati e ai generali. Uno di questi sono io.»
Sempre più incuriosito, chiesi: