Scherzi Da Adulti. Marco Fogliani
alle spalle, dalla scollatura fecero capolino e bella mostra di sé il suo reggiseno e le ampie e morbide forme che esso conteneva. Rimasi quasi senza fiato, doppiamente sorpreso: dalla scarica ormonale che ne subii e dal fatto che, mi era sembrato evidente, questa manovra non era stata affatto casuale. Mi fu veramente difficile mantenere il filo del discorso.
“Una sauna, un bagno turco” riuscii a continuare. “Alle volte uno stress termico o fisico può funzionare.”, le suggerii.
“Qualche volta mi è successo. Lo stress, come dici tu, mi porta stanchezza e sonnolenza, ma a quel punto sto peggio del solito.”
“Con me hanno un certo effetto anche …”, lo dissi con un certo imbarazzo, “ … i film pornografici.”
“Ah, si. Qualche volta è capitato anche a me di vederli. Veramente noiosi. Peggio ancora le corse delle moto o delle macchine. Ma non sono mai riuscita a non cambiare canale.”
“Beh, da un punto di vista economico dovresti approfittarne di questa tua insonnia. Non so che cosa fai nella vita, ma le attività svolte di notte, oltre ad essere sempre molto richieste, vengono normalmente pagate molto di più delle stesse svolte di giorno. Dico per esempio rispondere al telefono, oppure … ”
Nel frattempo lei sembrava essere diventata irrequieta. Non riusciva quasi a stare ferma sulla sedia di fianco alla mia.
“Mamma mia, ma che chiacchierone che sei”, mi disse. “Ma non la smetti mai di parlare? Vediamo un po' se riesco a trovare il modo per farti stare un po' zitto.”
Mi allungò il braccio attorno al collo, avvicinando la mia testa alla sua e tappandomi la bocca con un bacio che sembrava volermi impedire anche di respirare. Io dapprima rimasi quasi paralizzato, poi mi rilassai e mi lasciai andare.
“Finalmente”, mi disse. “Sapevo che non tutti sono affamati come quelli delle mie chat, ma tu mi stavi facendo venire il dubbio che fossi dell'altra sponda.” Si sistemò sopra le mie ginocchia sulla mia stessa sedia, e di nuovo mi richiuse la bocca con la sua, dopo avermi lasciato il tempo solo per un respiro profondo.
Ci baciammo a lungo. Io provai la strana sensazione di perdere il contatto col mio cervello, con la testa che si svuotava di qualunque pensiero.
“Vogliamo metterci più comodi? Che ne dici se ci spostiamo sulla poltrona?”, mi propose.
In effetti, appena terminato l'effetto drogante e anestetico dei suoi baci e del suo corpo tra le mie mani, mi resi conto che avevo le ossa un po' ammaccate e doloranti per il suo peso e per la scomoda posizione.
Mi fece alzare prendendomi per il colletto e mi spinse sulla poltrona che però, avendo i braccioli ed essendo ingombra di non so cosa, non si preannunciava neanch'essa il massimo della comodità per due persone.
“Ma un letto in questa casa non ce l'hai?”, feci in tempo a chiedere prima che, ricominciando coi suoi meravigliosi baci, potesse nuovamente farmi perdere l'uso della ragione.
“Si, giusto. Un letto ce l'avrei, anche se non lo uso mai. Potrebbe essere ingombro di pupazzi ed altre cianfrusaglie, ma dovrebbe essere più comodo. Un attimo e vado a sistemarlo.”
Feci per seguirla, ma lei si fermò un attimo a raccogliere le idee, e mi fermò.
“Aspetta qui un momento, bambolotto”, mi disse. “Dammi qualche minuto per indossare la biancheria intima e la camicia da notte più sexy che ho. Sono sicuro che la troverai una buona idea”, aggiunse facendomi l'occhiolino
Fece per andare nell'altra camera, ma fu bloccata da un altro pensiero. “Dimenticavo”, disse ancora.
Andò verso la porta di casa e la chiuse con un paio di mandate, facendomi vedere che si portava dietro la chiave. “Non si sa mai che ti venissero in mente strane idee”, aggiunse. “Ti do una voce io quando sono pronta”.
“Va bene, ma non ce n'era bisogno: ho tutt'altre intenzioni che scappare. Nel frattempo vado un momento in bagno, se non ti dispiace”.
Quando ne uscii, cercai di sbirciare dalla porta socchiusa della sua stanza, ma non osai affacciarmici. Tornai ad aspettare sulla poltrona, fiducioso sull'inevitabilità di quanto stava per accadere. Ma l'attesa, in sala d'aspetto, si protrasse più di quanto avevo immaginato, e conoscendo il suo senso dell'umorismo e la sua voglia di scherzare cominciai ad avere qualche timore.
“Novanta”, la chiamai, poiché mi sfuggiva il suo vero nome ma non osavo utilizzare il suo pseudonimo completo che conteneva la parola racchia.
“Novanta sessanta novanta, ci sei?”, la chiamai scherzosamente.
Aprii leggermente la porta della sua stanza.
Per terra e su una sedia pupazzi quaderni e vestiti disordinatamente. Lei sdraiata sul letto in camicia da notte di seta, in parte semi trasparente. Era bellissima, a dir poco.
Era bellissima soprattutto così, serenamente addormentata. Mi fece pensare alle principesse delle favole. Alla bella addormentata nel bosco, innanzitutto, e a Biancaneve, tanto era bella e avevo voglia di baciarla. Ma al contrario del Principe Azzurro non lo feci, temendo che avrei potuto svegliarla e magari farle perdere la sua bellezza; e soprattutto considerando da quanto tempo non dormiva.
Peccato, una fantastica occasione sprecata. Ma ero comunque felice pensando che, se ora stava dormendo, forse era in parte merito mio. Mi ero fatto l'idea che la sua insonnia fosse dovuta ala mancanza totale di anche solo un briciolo di vero amore – o, forse, chissà: sarebbe stato sufficiente che si sdraiasse prima.
La chiamai di nuovo, ma a bassa voce, nel caso mi stesse facendo uno scherzo; ma il suo respiro era pesante, per poco non russava, e la bocca semiaperta. No, non stava fingendo.
Cercai la chiave di casa per uscire, e la trovai quasi subito. Più difficile fu trovare un foglio bianco ed una penna che scrivesse.
“Grazie per la bellissima serata, davvero. Sei meravigliosa, non solo quando baci ma anche quando dormi. E complimenti per la tua tenuta sexy. Di certo non potrò fare a meno di pensarti anche quando si farà giorno.
Hai il mio numero, se ti va ci vediamo un'altra volta.”
Rientrando, con le ossa ancora dolenti, chissà perché un'associazione di idee mi fece venire in mente anche la favola della principessa sul pisello; ma soprattutto considerai che i miei amuleti - la chiave inglese, il preservativo ed il peperoncino – avevano funzionato perfettamente facendomi passare una bellissima serata, anche se qualcuno al posto mio avrebbe potuto non pensarla allo stesso modo.
LA ROSCIA
La Roscia lavorava al reparto Contabilità, al piano di sopra. Era una di quelle ragazze che non passano inosservate, non solo per il colore dei capelli ma anche per l’abbigliamento, sempre elegante ma sportivo, in perfetto accordo con la sua linea sottile; per i suoi movimenti veloci e la giovanilità del suo sorriso, distribuito a tutti con abbondanza.
Poiché la sua fama arrivava prima di lei, i neo-assunti erano sempre molto curiosi di conoscerla, ed in genere non ne rimanevano delusi. Si diceva che avesse sacrificato la famiglia alla carriera. Non che avesse famiglia, anzi. Aveva rinunciato a farsi una famiglia per amore dell’azienda, o meglio dei dipendenti dell’azienda, uno dopo l’altro, a turno. Preferibilmente di livello alto, anche se talvolta si veniva a sapere di qualche “miracolato” di gerarchia inferiore, il che la rendeva ancora più umana e desiderabile, alimentando le speranze di tutti.
Io la conoscevo (e apprezzavo) solo di fama e di vista, come del resto la maggior parte di noi. Poi successe che nel suo stesso reparto fu assunta anche Giuditta, che dopo non molto tempo divenne prima la mia fidanzata e poi mia moglie.
Accadde in ufficio, tra una baraonda di colleghi ciascuno moralmente obbligato a porgere un breve augurio ai festeggiati, durante il rinfresco che organizzammo per il matrimonio. Ricordo il momento in cui la Roscia mi si avvicinò. Passò sicuramente inosservato a mia moglie, che non mi fece mai alcun accenno a quel bacio dato con un po’ troppa passione rispetto a quanto si conviene