Due. Dispari. Federico Montuschi

Due. Dispari - Federico Montuschi


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Slavo si rimise al lavoro, accucciandosi sotto il tavolo del computer con un accenno di sorriso sulle labbra, e rendendosi conto di quanto il rientro dell’ispettore lo rallegrasse; poco dopo, si rimise all’ascolto di Radio Reloj, che trasmetteva buona musica rock senza interruzioni di assoli, come amava sottolineare Castillo.

      Ma quella mattina, il deejay fece un’eccezione, tagliando bruscamente l’estasi di Slash nella versione dal vivo di Knocking on Heavens Door.

      «Interrompiamo la programmazione, cari ascoltatori, per comunicare purtroppo una tragica notizia. Il parroco di Burgos, Padre Juan, è stato trovato morto questa mattina in Calle del Tesoro, a seguito di una caduta dal balcone dell’appartamento nel quale viveva. Non si hanno al momento elementi per valutare con precisione la dinamica dell’accaduto. Vi terremo aggiornati in tempo reale, come sempre».

      La ripresa immediata dell’assolo provocò all’ispettore un brivido freddo che gli percorse la schiena come una scossa elettrica.

      Appoggiò la testa sullo schienale della propria poltrona da ufficio e fissò lo sguardo sulle dense nuvole nel cielo, che garantivano di lì a breve nuovi acquazzoni.

      Mentalmente, imprecò.

      «Slavo, andiamo subito a vedere cosa è successo, ho voglia di muovermi e di far andare un po’ la testa su questo suicidio» sentenziò, infilandosi l’impermeabile e raccattando dal portaombrelli l’unico ombrellino rimasto.

      «Sempre che di suicidio si tratti» pensò poi fra sé e sé, dubbioso.

      Attraversarono piazza Allende di buon passo, Castillo davanti, lo Slavo un mezzo metro dietro, arrancando.

      Camminava zoppicando in modo quasi impercettibile, ma Castillo, fine osservatore, non aveva perso quel dettaglio e si era più volte ripromesso di chiedergli quale ne fosse la causa, ma per un motivo o per l’altro non l’aveva mai fatto.

      E anche in quel caso i suoi pensieri erano stati subito calamitati dalla notizia di Padre Juan, lasciando l’andatura sbilenca dell’amico in un lontano secondo piano.

      Castillo era un vecchio conoscente del prete, con cui aveva condiviso gli anni dell’università, a San Josè e, nonostante le loro strade avessero poi seguito percorsi diversi, quasi divergenti, fra i due si era mantenuta una stima reciproca che portava l’ispettore a definire Padre Juan come il proprio unico amico in ambito clericale.

      Era un parroco atipico, con una folta chioma di capelli ricci in perenne disordine e una barba poco curata.

      Vestiva moderno, spesso in jeans e anfibi, tanto che in molti stentavano a credere che fosse veramente un ecclesiastico, ma forse proprio per quello nel paese era diventato un punto di riferimento imprescindibile per tutti, cattolici e non.

      La sua capacità oratoria era proverbiale e le prediche domenicali costituivano un appuntamento importante per la comunità, a prescindere dal credo dei singoli.

      Castillo e lo Slavo arrivarono al parcheggio di Calle Arenal in pochi minuti, non sufficienti però a evitare le prime gocce di pioggia sulle loro teste.

      «G-guida tu, per favore, che io ho b-bisogno di riflettere» disse l’ispettore, lanciando le chiavi dell’Alfa allo Slavo e alzandosi il colletto dell’impermeabile per ripararsi dalle prime raffiche di vento che iniziavano a spazzare le strade.

      Lo Slavo prese le chiavi al volo e senza dire una parola avviò il motore.

      Le strade erano semideserte e, durante il breve viaggio per raggiungere la zona popolare di Calle del Tesoro, permasero assorti nei propri pensieri.

      Arrivarono in meno di un quarto d’ora, parcheggiarono l’Alfa accostandola al marciapiede di fronte all’abitazione del prete e scesero dall’auto.

      Castillo diede una rapida occhiata panoramica al contesto ambientale.

      L’appartamento di Padre Juan era parte di un classico casermone di edilizia popolare, cinque piani di muri rossastri imbrattati quasi completamente da writers improvvisati, molti vetri delle finestre rotti, antenne paraboliche attaccate anche con lo scotch ai balconi e volumi delle televisioni abbondantemente fuori soglia rispetto alle regole non scritte di buon vicinato.

      Da molte finestre sventolavano come fiacche bandiere vestiti di diverso tipo, tutti stesi senza cura all’aria aperta.

      Castillo non poté evitare di pensare che a Padre Juan, evidentemente, piaceva vivere a stretto contatto con gli ultimi.

      Le grida gioiose dei bambini che giocavano nel cortile interno si alternavano alle urla quasi rabbiose delle madri che li cercavano, invano, per chiamarli in casa e ripararsi dalla pioggia.

      In terra, sul marciapiede, era rimasta una chiazza di sangue rappreso che i servizi ambientali di Burgos non avevano ancora pulito.

      Confidavano nell’acquazzone pomeridiano, probabilmente.

      «Un b-bel salto, non c’è che dire» disse Castillo, volgendosi verso lo Slavo, che permaneva ritto sul marciapiede, con lo sguardo diretto verso il basso parapetto del balcone del terzo piano e il giornale locale appoggiato a mo’ di visiera sulla fronte, per evitare le gocce negli occhi.

      Lo Slavo non proferì parola.

      Sapeva che doveva rispondere all’ispettore solo a fronte di precisa domanda, che non tardò ad arrivare.

      «Che ne p-pensi?».

      «Un suicidio di una persona a cui tutti volevano bene. Povero padre Juan. Chissà cosa gli è passato per la testa» rispose il ragazzo, ciondolando la testa e rendendosi immediatamente conto della banalità dell’affermazione.

      L’ispettore alzò il sopracciglio sinistro, incrociò le braccia al petto e si volse lentamente verso di lui.

      «Apparentemente sì. Ma r-ragioniamoci un attimo. Che motivo poteva avere un personaggio come Padre Juan per gettarsi dal t-terzo piano? Era un uomo stimato dalla comunità, sereno, per come lo conoscevo io. D’altronde, m-mi vien da dire, anche l’ipotesi che sia stato ucciso è difficilmente sostenibile: che nemici poteva avere una persona così? Lasciami c-chiamare la polizia per sentire se abbiano aperto un’indagine».

      Lo Slavo quasi si stupì per la tranquillità con cui Castillo gli si era rivolto.

      Solitamente, a fronte delle sue uscite scontate, l’ispettore reagiva con l’effetto cerino, infiammandosi rapidamente e, altrettanto rapidamente, spegnendosi.

      Ma i giorni trascorsi a casa dovevano aver giovato alla sua tranquillità, o forse, più banalmente, non voleva iniziare la settimana con una discussione sterile.

      Castillo estrasse il telefono dalla tasca laterale dell’impermeabile e compose il numero della centrale di polizia di San Josè.

      Al terzo squillo rispose Herreros, un ex poliziotto della volante che qualche anno prima, a seguito di uno scontro a fuoco con un clan di narcotrafficanti, era rimasto paralizzato dalla vita in giù e ora deambulava in sedia a rotelle.

      Anche lui di Burgos, e per questo fin da prima dell’ingresso in polizia stretto amico di Castillo, era un uomo di corporatura robusta e portava una folta barba nera, che alcuni dicevano fosse dettata dalla necessità di nascondere una profonda cicatrice da coltello, regalo di uno degli svariati scontri con la malavita centroamericana.

      Non aveva famiglia e passava la maggior parte delle serate libere nelle birrerie della capitale a parlare con la gente che incontrava.

      Era da sempre e da tutti conosciuto come un uomo buono, con occhi miti, sguardo burbero ma dolce, sempre puntato verso l’orizzonte, e la notizia del suo ferimento con conseguente paralisi aveva gettato i più nello sconforto.

      Il posto di centralinista alla sede di polizia di San José gli era stato affidato in virtù della sua affabilità con la gente, che nonostante l’incidente era rimasta intatta.

      E quel caso non fece eccezione.

      «Polizia di San José, buongiorno. Come possiamo aiutarla?».

      «Herreros


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