Il Vero E Il Verosimile. Guido Pagliarino

Il Vero E Il Verosimile - Guido Pagliarino


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e glielo descrisse: era sogno identico al suo, solo che alla finestra c'era lei e lo spirito le aveva chiesto di domandare, per lui, perdono a Bruno. Per timore di dimenticare, subito gli aveva riferito l'ambasciata.

      "Telepatia?" chiese a sé stesso il marito, ma a voce alta.

      "Un Segno del Cielo", decretò la moglie: "Il defunto chiede preghiere e il tuo perdono."

      Come avrebbe voluto che la ragione fosse stata di Valeria! Un Segno d'Eternità davvero, non l'emergere d'un senso di colpa per la mai sopita avversione a quell'uomo, inutilmente respinta con la ragione e ancor forte abbastanza da influenzare nel sonno persino la mente di lei. Ma come avrebbe potuto credere a un Segno, persa la Fede fin da ragazzo, per atee letture, per maestri miscredenti?! Eppure, sentiva il bisogno di Dio e da alcuni anni aveva ripreso a cercarlo; ma invano.

      "Ah, se solo mi giungesse qualcosa ancora! Anche solo un minimo indizio, ma che fosse certo", si scoprì a desiderare nel dormiveglia, riprendendo sonno: "Se mi venisse un vero Segno, invece d'un semplice sogno…"

      L'astio per il prozio era nato in Bruno più di vent’anni prima.

      Era il 1963. Studente, aveva iniziato il secondo anno di Economia e Commercio, come s’intitolava allora la laurea economica torinese, in previsione d’unirsi al papà nella professione.

      Un pomeriggio sul tardi, inaspettatamente, suo padre, agente di borsa, era stato contattato per telefono dal cavaliere, che gli aveva chiesto di fissargli un appuntamento in studio "per importanti comunicazioni circa lo splendido futuro che voglio preparare a mio nipote, cioè a tuo figlio".

      Il papà era rimasto divertito e insieme sconcertato da quella telefonata, per l'artificiosa burocratica espressione usata dal parente e perché gli pareva ridicola l'idea che "da quell'artigiano", e non dallo studio professionale, potesse venire "uno splendido futuro" al suo ragazzo.

      Alla morte della moglie, quando il bimbo aveva solo tre anni, il dottor Seta aveva promesso di non risposarsi e dedicarsi a Bruno soltanto; ma, non riuscendo a seguirlo a sufficienza negli studi, s'era costretto a metterlo in collegio sin dalla quarta elementare. Benché liberale agnostico, aveva scelto, per la sua buona fama, "un serio istituto di religiosi" dove sapeva che il figlio sarebbe stato seguito bene: "...ma solo fino alla licenza media inferiore!". Adolescente, l'aveva liberato e iscritto alle sue venerate scuole laiche; ed era stato nelle superiori, a causa di atei maestri, che Bruno aveva perso la fede in Dio.

      Avendo dunque dedicato al figlio, al meglio di quanto potesse, la sua propria vita, papà Seta era rimasto apparentemente divertito, e in fondo dispiaciuto, che altri improvvisamente si proponesse quale fattore del futuro di Bruno.

      Quel parente d'acquisto, che in matura età aveva sposato la zia della defunta madre di Bruno, verso la fine degli anni '40 del XX secolo aveva creato un'aziendina artigianale di giocattoli: lui e un paio di dipendenti. Poiché le due famiglie non si frequentavano, nient’affatto si sapeva che, sull'espansione economica degli anni '50 e primi '60, il cavaliere avesse ingrandito l'impresa fino a divenire industriale del giocattolo e degli stampati plastici con quasi duecento operai e un fatturato assai grande.

      Troppo avanti negli anni, i coniugi non avevano avuto figli, e proprio per questo l'imprenditore aveva contattato il papà di Bruno.

      Non appena ricevuto dal dottor Seta, il cavaliere aveva esordito: "Io non ho eredi, nemmeno lontani parenti. Non voglio che alla mia morte la fabbrica vada allo Stato, perché dove mettono le mani quelli, va tutto in malora; e mia moglie, se pure mi sopravvivesse, non sarebbe in grado di gestirla. Per lei, ho già provveduto: un usufrutto enorme, pari a un terzo del reddito dello stabilimento," – qui s'era interrotto per un attimo, aspettando di cogliere uno sguardo d'ammirazione del Seta – "ben inteso, alla mia morte". Intanto, aveva messo una mano in tasca a toccare, così più avanti si sarebbe dedotto, un suo chiodo: come Bruno avrebbe poi saputo, l'uomo, superstiziosissimo, considerava quell'oggetto il portafortuna di tutta la sua vita.

      Aveva proseguito: "Voglio che il mio nome, nella mia ditta, resti a mia memoria nei secoli!"

      Il dottor Seta per poco non gli aveva riso in faccia: Magari più dell'impero romano aveva, solo, pensato, e avrebbe ripetuto al figlio. Era riuscito, tuttavia, a rimanere serissimo.

      L'altro, intanto: "La mia industria è ormai formidabile. Rende un mucchio di soldi, altro che il tuo studiolo!"

      Proprio così aveva detto, studiolo; ma, come nel suo carattere, il padre di Bruno era rimasto impassibile, pur pensando: "Il solito bifolco" e, tendendogli la mano per congedarlo, gli aveva risposto: "Dovrò chiedere al ragazzo, è lui che deve decidere. T’informerò quanto prima."

      L'altro aveva storto la bocca in un mezzo sorriso e una mezza smorfia, come a intendere: "Adesso sono i ragazzini a decidere? Con un'offerta così!" e se n’era andato; però, giunto alla porta dello studio s'era girato e, guardandosi prima attorno per assicurarsi d’avere l’attenzione delle impiegate, aveva soggiunto: "Rammenta: Bruno dovrà impegnarsi per iscritto, anche per i suoi eredi, che la fabbrica si chiamerà, per sempre, col mio nome: Industria Cavalier Olindo Pittò!"

      L'uomo, notorio ateo, s'era illuso di sopravvivere nell'intestazione della sua ditta.

      "Cosa ne penserebbe il Foscolo?" ne aveva poi scherzato col figlio, dopo averlo informato, il dottor Seta citando il poeta dei Sepolcri, che molto amava; e aveva concluso: "Tu, intanto, pensaci, perché la proposta è interessante; e tieni presente che potresti prendere lo stesso la laurea, lavorando e studiando dopo cena sui libri; la testa e la grinta, le hai."

      Il papà aveva già chiesto informazioni sull'azienda Pittò, che erano state ottime. Dopo alcuni giorni l'offerta era stata verbalmente accettata, ma col patto che non soltanto per testamento, sempre revocabile, Bruno avrebbe acquisito i suoi diritti ma, di lì a due anni, la ditta individuale sarebbe stata trasformata in società per azioni e al giovane, che avrebbe lavorato gratis, si sarebbe intestato il dieci per cento della proprietà; quindi, il due per cento a ogni biennio fino a raggiungere un terzo delle azioni; il resto sarebbe venuto, per lascito testamentario, alla morte del cavaliere. Per evitare al figlio un impegno irrinunciabile, e considerando che la maggiore età si raggiungeva a quei tempi solo a ventun anni, il padre aveva preferito che si rimanesse, per il momento, sulla semplice parola, senza atti scritti.

      Il carattere dell'industriale era venuto quasi subito in luce. Sebbene sapesse esprimersi con proprietà, grazie forse a molte letture e, di certo, alle rigorose scuole elementari d’un tempo, era rozzo più di quanto le descrizioni di papà Seta avessero lasciato supporre, prepotente coi sottoposti e umilissimo coi potenti, fra i quali includeva gli industriali più ricchi di lui. Per Seta figlio, educato alla libertà e al rispetto per il prossimo, la comunanza era stata difficile.

      Bruno era entrato in fabbrica in quello stesso '63, accompagnato dal Pittò, il primo un poco intimidito, l'altro, l'industriale, tronfio ma disponibile, e sarebbe stata l'unica volta, con l'aria d'un sovrano che mostrasse, compiacendosene altamente, il proprio regno al principe ereditario.

      Dopo averlo condotto e ricondotto per ogni luogo dello stabilimento, il prozio l'aveva presentato – "Mio nipote, l'erede" – ai due dirigenti dell'opificio, quello tecnico, il signor Tirlotti, bi-diplomato perito chimico e perito industriale e con la testa d'un ingegnere, ma paga più bassa, e quello amministrativo, il dottor Fringuella, un alto stempiatissimo scapolo cinquantenne un po' gibboso e magrissimo, giallognolo di pelle e con un enorme naso che pareva sempre avvinazzato e, nell'ultimo tempo della permanenza di Bruno in fabbrica, lo sarebbe stato sicuramente, con aggravamento della sua conclamata malattia di fegato. Il Fringuella, da poco più di otto mesi, sbucando dal buio di precedenti professioni e contento del non pingue stipendio, era stato assunto dal padrone al posto di un certo Dialzi. Il suo predecessore era stato licenziato in tronco "per aver rubato", ma giammai, stranamente, denunciato all'autorità giudiziaria, sebbene gli ammanchi fossero


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