L’ira Dei Vilipesi. Guido Pagliarino

L’ira Dei Vilipesi - Guido Pagliarino


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dalla torretta, l’esubero di rastrellati, la misura era stata valutata consona dal superiore, nazista convinto anche se non SS, il quale aveva ordinato di “giustiziarli” tutti. Quei civili inermi erano stati abbattuti a raffiche di mitra. Risaliti i carnefici sul loro panzer, il maresciallo aveva comandato ai mitraglieri di riprendere a sparare tutt’attorno, stavolta mirando ai piani alti. Le raffiche terroristiche erano andate avanti per molti minuti mentre quel razzista di Konrad Müller pronunciava con odio, esprimendosi nel suo dialetto bavarese, espressioni che in italiano sarebbero suonate così: “Italiani di merda! Bastardi traditori! Razza di porci!”

      Il drago d'acciaio stava per riprendere il suo pattugliamento per le vie quand’era sopraggiunto il mezzo blindato di altri italiani di merda. Questo era di molto inferiore al Panther tanto per corazzatura che per potenza di fuoco. Il maresciallo Bennato poteva solo tentare una rapida marcia indietro, nella debolissima speranza che il nemico avesse altri ordini da eseguire subito e non si buttasse all’inseguimento: aveva frenato di botto, senza bisogno di riceverne il comando, innestato la retromarcia e dato gas, mentre i sei patrioti appiedati, vedendo l’autoblindo iniziare a retrocedere, s’erano ritirati precedendola nell'arretramento. Il mezzo era però riuscito a infilarsi in via Battisti solo per una parte della lunghezza, perché il motore s’era ingolfato e spento per la manovra convulsa, e il blindato s’era fermata col muso ancor esposto al nemico.

      Contrariamente alla fievole speranza italiana, invece di riprendere il pattugliamento per Napoli il comandante del Panther aveva deciso di distruggere il mezzo ribelle e aveva ordinato al cannoniere di puntare ad alzo zero contro la prua nemica.

      Vittorio, intravista dalla feritoia la torretta del carro prendere a ruotare indirizzando la bocca da fuoco all'autoblindo, aveva urlato ai suoi d’abbandonare il mezzo e imboscarsi negli anditi di via Battisti e, nel dare l’ordine, egli stesso s’era diretto al portello, toccando terra per primo: avrebbe poi ragionato che, dopotutto, indugiare non sarebbe servito a far uscire più in fretta gli altri; in realtà era prevalso semplicemente in lui l’istinto di conservazione.

      Il colpo di cannone era rimbombato un istante dopo che il maresciallo Bennato, per ultimo, era balzato fuori. Il proietto era esploso preciso sulla parte esposta del mezzo cui il cannoniere aveva puntato. Per simpatia esplosiva era brillata anche la bomba anticarro Panzerwurfmine entro il Panzerfaust del granatiere, arma che fin a un momento prima era stata sulla sua spalla ma ch'egli aveva gettato per meglio fuggire. Il blindato italiano era stato scagliato indietro e incendiato, investendo e schiacciando i quattro patrioti più vicini, mentre fitte e grosse schegge si spandevano a raggiera devastando. Ne era rimasto ucciso il maresciallo Bennato che, colpito al collo da un rovente spezzone di lamiera, era morto sul colpo con la testa tranciata. Il granatiere era stato dilaniato dalla bomba Panzerwurfmine e dalle schegge del Panzerfaust, cui era stato ancor troppo vicino. Gli agenti Tertini e Pontiani, colpiti alla schiena da una gragnola di frammenti, erano morti minuti dopo, bocconi sul selciato. Se l’erano cavata solo il vice commissario, il brigadiere e la giovane donna, ch’erano riusciti a imbucarsi, appena un attimo prima dello scoppio, nel più vicino androne. Al contempo, a causa del violentissimo spostamento d’aria, i fatiscenti muri esterni di due vecchie palazzine, che s’ergevano ai lati dell’autoblindo, erano crollati trascinando con sé i residenti e seppellendoli a morte. Vittorio e i suoi due compagni avevano attraversato di corsa il cortiletto dove s’erano rifugiati e, di séguito, passando sotto un arco trasversale a un muro, erano entrati nella corte d’un altro caseggiato. Qui la giovane, che già aveva buttato il mitragliatore MG all’inizio della precipitosa ritirata, s’era disfatta dei nastri di munizioni portati a bandoliera e stava per gettare pure la borsa con la radio, ma Vittorio gliel’aveva presa e, senza parole, l’aveva messa ad armacollo al brigadiere: “Ci potrebbe servire”, aveva detto. Il trio era riuscito, passando circospetto da corte a cortile, da cortile a cavedio, da cavedio a corte, a sboccare in via del Chiostro, sgombra di tedeschi, che terminava e termina ancor oggi nella via Monteoliveto, dove abitava la ragazza. Appunto a casa propria ella intendeva rifugiarsi. I due poliziotti contavano invece di raggiungere via Medina, consecutiva a via Monteoliveto, oltre l’incrocio col corso Umberto I, e di tornare in Questura.

      Vittorio aveva fatto capolino su via Monteoliveto e aveva lanciato un’occhiata a sinistra e una a destra. Aveva scorto con disappunto, non lontano alla sua destra alla confluenza della via nel corso Umberto I, un posto di blocco d’un plotone di Waffen25 SS dotato di camionette, di motocarrozzette e d’un cannone caccia-carri semovente da 47 millimetri Panzerjäger, antiquato modello frutto dell’adattamento d’un ancor più antico panzer e arma poco efficace verso carri armati moderni, ma micidiale contro mezzi non corazzati ed edifici. I veicoli erano stati posti dai tedeschi l’un dietro l’altro lungo il corso Umberto I, frapposti all’intersezione dello stesso con via Medina e via Monteoliveto. Evidente era lo scopo d’impedire ad automezzi l’ingresso nel corso o il suo attraversamento. Poiché il cannone caccia-carri era rivolto verso via Medina, Vittorio aveva supposto, correttamente, che scopo del blocco fosse ostacolare mezzi e uomini in uscita dalla Questura. Aveva anche immaginato che, per impedire il passaggio d’automezzi in entrambe le direzioni, dovesse esserci un altro posto più in là oltre la stessa Questura, all’incirca nel punto dove s’era svolto il combattimento dei patrioti coi granatieri tedeschi.

      Dunque, d’attraversare corso Umberto I e raggiungere i colleghi rimasti in sede neppure a parlare. Si trattava adesso di ripararsi tutti in casa della ragazza. Poiché il brigadiere era in uniforme, il D’Aiazzo aveva pensato bene, prima che il terzetto si ponesse in vista su via Monteoliveto col rischio d’esser notato dai tedeschi, di dare al dipendente la giacca del proprio completo grigio in lanital26 , perché l’infilasse sopra la giubba, nascondendola alla meno peggio e coprendo la borsa della radio che, appesa al collo, pendeva davanti all’addome del sottufficiale. Così s’era fatto. Marino aveva pure celato sul petto, sopra la giubba e sotto la giacca prima di chiuderne i bottoni, il copricapo militare.

      L’abitazione della ragazza sorgeva a sinistra di via del Chiostro sullo stesso lato della via Monteoliveto in cui l'altra sfociava. I tre s’erano mossi uno alla volta a una trentina di metri l’uno dall’altro, davanti la giovane, dietro il brigadiere e, ultimo, il vice commissario. Come questi aveva raccomandato, avevano camminato lentamente e, se pur erano stati notati dai nazisti del posto di blocco, il che non era sicuro, di certo non erano nati sospetti, visto che nessun tedesco aveva lasciato l’incrocio per raggiungerli e verificarne i documenti.

      L’edificio era una palazzina con due soli appartamenti sovrastanti, di cui il più arioso era al primo piano, con soffitti a tre metri dal pavimento, mentre l’altro, dove viveva la giovane coi propri genitori, era un ammezzato alto due metri e cinquanta; esso sovrastava un magazzino a piano terra che s’apriva su via Monteoliveto sia con una porticina, alla sinistra del portoncino del palazzotto entrando, sia, ancor più a manca, con un’apertura carraia, in quel momento chiusa da una saracinesca. La casetta era di proprietà d’un venditore ambulante di frutta e verdura che abitava al primo piano e si serviva del magazzino per la sua attività, mentre affittava il mezzanino alla famiglia della giovane.

      La ragazza aveva aperto il portoncino ed era entrata nel piccolo atrio del palazzotto, che odorava di chiuso, lasciando la porta accostata e attendendo i compagni. Un po’ d’aria fresca era entrata per la fessura. Uno alla volta i due uomini s’erano riparati. Vittorio s’era tirato dietro l’uscio e subito dopo, con la giovane in testa, il gruppetto aveva montato la mezza rampa di scale che conduceva all’ammezzato.

      Come risultava dalla targhetta a lato della porta dell’appartamento, la famiglia si chiamava Scognamiglio.

      â€œTu sei Scognamiglio e poi…?” aveva chiesto Vittorio alla giovane.

      â€œMariapia.”

      â€œPiacere, Mariapia”, aveva sorriso lui, smessa l’espressione preoccupata che aveva avuto in faccia da quand'era uscito di Questura: “Io sono il vice commissario Vittorio D’Aiazzo.”


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