L’ira Dei Vilipesi. Guido Pagliarino

L’ira Dei Vilipesi - Guido Pagliarino


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avere conferma di me da lei e pure dai vicini; mi raccomando, però, di tutto cuore: non spaventatemi mammà, ditele, per piacere, che vi ho incaricato io di salutarmela dato che non ho potuto venire di persona per ragioni di servizio.”

      â€œSe troviamo tua madre, non te la spaventiamo e le parliamo come tu desideri.” A questo punto, però, il vice commissario gli era stato di nuovo addosso: “Prima avevi tentato di farmi credere d’aver avuto con la Demaggi un appuntamento galante prezzolato e poi hai ammesso che non era vero; allora dimmi: se la vedevi per la prima volta, come facevi a sapere che quella donna era un prostituta?”

      Non s’era scomposto: “L’avevo sentito dal vostro capo ronda che ne aveva parlato coi suoi davanti alla morta.”

      â€œControllerò. Adesso dimmi ancora una cosa” – il D’Aiazzo aveva lasciato la domanda per ultima, per scoccarla quando l’inquisito fosse stato stanchissimo –: “Perché mai portavi guanti di lana in questa stagione? Per non lasciare impronte, non è vero?”

      â€œâ€¦ma no, signor commissario”, non s’era preoccupato l’altro, “il motivo è semplice, li indosso ormai da tempo, li avevo anche in servizio, su permesso del capitano: soffro di dolori alle dita delle mani e anche al palmo sinistro.”

      â€œHm…”

      â€œâ€¦ma sì, per l’umidità delle cucine nel corso di tanti anni, tra vapori di pentole e acqua dei lavaggi delle marmitte, come mi aveva spiegato il tenente medico, ed era stato lui a dirmi di portare i guanti.”

      Stremato l’uomo e stracchi i due poliziotti, a un ordine del vice commissario il presunto sergente maggiore Gennaro Esposito era stato scortato in camera di sicurezza dal brigadiere Bordin.

      Coi soli dati raccolti Vittorio D’Aiazzo non aveva potuto formarsi un’idea certa: restavano per lui contemplabili tanto l’ipotesi d’un incidente quanto quella d’un omicidio e questo non necessariamente perpetrato dal fermato; nel caso però di sua colpevolezza, il movente poteva trovarsi nella concorrenza fra borsaneristi, se l’identità e in particolare la posizione nell’Esercito del sedicente Esposito non fossero state confermate, mentre in caso contrario sarebbe stato verosimile un diverso motivo. Peraltro, se l’anatomopatologo avesse stabilito essersi trattato d’assassinio, l’inquisito, sebbene non avesse confessato, sarebbe stato trasferito alla Casa Circondariale di Poggioreale quale sospetto, mentre parallelamente il vice commissario avrebbe dovuto stilare e trasmettere alla Procura del Regno una relazione contenente sia le conclusioni del medico legale, sia le notizie raccolte dallo stesso D’Aiazzo durante l’interrogatorio. Sul suo rapporto il giudice istruttore avrebbe deciso se aprire un procedimento contro il sospettato oppure farlo scarcerare per insufficienza di prove.

      Non mancava più molto alle 8 del mattino e il giovane funzionario stava per terminare il suo turno; tuttavia, prima di tornarsene a casa intendeva ancor ordinare al brigadiere d’andare in vicolo Santa Luciella a controllare se ci vivesse davvero la madre dell’indagato e, in questo caso, se ella riconoscesse il figlio nella foto della patente e se confermasse ch’egli era davvero un sergente maggiore d’artiglieria. Il vice commissario non aveva però in programma d’aspettare il ritorno del sottoposto, ne avrebbe ascoltato la relazione il giorno seguente; tanto, prima che giungesse al suo ufficio il verbale dell’anatomopatologo sarebbero passati almeno due o tre giorni, duranti i quali il fermato se ne sarebbe rimasto chiuso in guardina.

      Il Bordin, dopo aver fatto ridurre l’inquisito in cella, era tornato dal D’Aiazzo. Entrato in ufficio gli aveva detto: “Signor commissario, secondo me quell’Esposito o presunto tale è stato mandato dalla camorra ad ammazzare la Demaggi per due possibili motivi: o per ragioni di concorrenza a borsa nera, o perché quella lurida puttana non voleva più pagare la tangente…”

      â€œâ€¦Marino, quella donna è morta e i defunti non s’insultano”, l’aveva ammonito il giovane superiore, “e comunque non sono convinto che l’indiziato sia un assassino.”

      â€œScusatemi se mi permetto, ma penso… beh, che voi siete sempre troppo buono: se noi gli menavamo qualche colpo allo stomaco coi sacchetti di sabbia…”

      â€œâ€¦che non lasciano il segno?”

      â€œPrudenza lo vuole; e state sicuro che quel delinquente si sarebbe dichiarato colpevole e pure camorrista e chi sa cos’altro. Invece così…”

      â€œâ€¦invece così non ho rischiato di far confessare un innocente, a parte che se ti vedessi mollare sacchettate a qualcuno… mi hai capito, Marino?”

      â€œEeh….”

      â€œCi penserà il giudice istruttore, semmai, a fargli ammettere la colpevolezza, sempre che il medico non ci dica che s’è trattato d’un incidente così ch’io archivi la pratica e liberi quell’uomo.”

      â€œGià, può darsi; però, parlando in generale, voi, signor commissario, siete forse l’unico qui a non mollare almeno qualche ceffone agl’interrogati. Il fu dottor Perati che servivo prima di voi faceva confessare tutti.”

      Nell’ardore dell’età, non disgiunto da quel pizzico di presunzione che permaneva in lui, era sfuggito al vice commissario, istintivamente nella lingua partenopea che usava in famiglia: “Tu si’ ‘nu fésso.”

      â€œCosa?!” era divenuto paonazzo il sottufficiale.

      Il superiore s’era parzialmente emendato: “Va bene, Marino, ritiro il fesso, però sbagli a parlarmi senza riguardo solo perché ho la metà dei tuoi anni. Sta’ accorto, perché se ricapita, ti punisco.”

      Il Bordin aveva ritenuto saggio scusarsi, sia pur a denti stretti: “Perdonate, signor commissario, è stato tanto per dire, non volevo criticarvi.”

      Se Vittorio D’Aiazzo, col tempo, avrebbe acquisito appieno l’umiltà grazie alle metaforiche sberle della vita, al momento voleva ancor essere lui a pronunciare l’ultima parola: “Va bene, ma d’ora in poi pensa a quello che dici, prima di dire quello che pensi.”

      L’uomo aveva ritenuto saggio irrigidirsi sull’attenti: “Signorsì.”

      â€œSta’ pure sul riposo e non restare mortificato”, aveva addolcito il tono il superiore, nel quale aveva avuto la meglio, finalmente, la compassione. Aveva proseguito: “Hai detto che il Perati faceva confessare tutti: certo, lo so bene, me l’avevano raccontato quand’ero arrivato qui; ma tu te lo ricordi chi l’aveva ammazzato?”

      â€œSissignore, la madre d’un ladro abituale…”

      â€œâ€¦ladro cui il Perati aveva lanciato l’accusa d’aver accoltellato a una mano un panettiere, per derubarlo, e che aveva fatto confessare sì, ma come? Legandolo a pancia in su sopra un tavolo e frustandolo con la cinghia; e due giorni dopo, te lo ricordi? l’indagato era morto per un’emorragia interna.”

      â€œScusatemi, posso parlarvi liberamente ma con tutto il rispetto?”

      â€œPuoi.”

      â€œIo credevo che il dottor Perati fosse stato nel giusto perché non ne aveva avuto rimproveri da superiori.”

      â€œAllora non sai che la faccenda era stata sepolta per ordine del federale di Napoli19 , perché il Perati era fascistissimo e leccapiedi; e però, nella mente della madre del morto la cosa non era stata affatto seppellita, e oltretutto ella aveva appreso, un paio di settimane dopo la morte del figlio, ch’egli era innocente tanto del ferimento che del furto, e questo tu lo sapevi, no?”

      â€œSapevo che il vero


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