L’ira Dei Vilipesi. Guido Pagliarino

L’ira Dei Vilipesi - Guido Pagliarino


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Vaccari. Il Soprano era uomo d’ordine, anticomunista e antisocialista e avversario di possibili azioni violente da parte del popolo, anche se non era fascista ma liberale: non certo un demoliberale alla Gobetti, ma un aristocratico all’antica. Più per la sua ripulsa verso le masse popolari che per soggezione ai tedeschi egli aveva firmato il decreto di coscrizione al lavoro: temporeggiare per mantenere la calma era stato il suo immediato obiettivo. Pochi giorni prima di quel 26 settembre, dopo che c’erano stati contatti fra l’intelligence dell’US Army e i dirigenti dei partiti antifascisti napoletani, proprio in vista di un’auspicata sollevazione di Napoli, il prefetto Soprano era stato avvicinato da esponenti del neonato Fronte Nazionale di Liberazione – poi Comitato di Liberazione Nazionale – da poco fondato con sede centrale a Roma, composto dal Partito d’azione, dal Partito liberale, dal Centro democratico cristiano, dalla Democrazia del lavoro, dal Partito socialista di unità proletaria e dal Partito comunista. Avevano premuto su di lui perché cooperasse con la nascente opposizione tramite le forze di Polizia che dirigeva, offrendogli tutto l'appoggio possibile. Il prefetto però, sempre perché avversario del socialcomunismo e timoroso di qualsiasi moto rivoluzionario, aveva preferito la via della prudenza, limitandosi a dialogare politicamente, in segreto, coi moderati dirigenti liberali Enrico De Nicola e Benedetto Croce: senza scoprirsi.

      Tanto Domenico Soprano quanto Walter Scholl avevano fatto male i conti. Poiché centocinquanta persone soltanto s'erano presentate ai germanici entro il termine stabilito dal bando, gli stessi, nel corso del pomeriggio di domenica 26 settembre e delle prime ore notturne, avevano preso a rastrellare selvaggiamente Napoli radunando 8000 inermi cittadini, anche uomini attempati e ragazzi tredicenni. I tedeschi avevano fatto scoccare la scintilla della ribellione accendendo gli animi dei famigliari e parenti dei rastrellati, smaniosi di liberarli. La mattina presto di lunedì 27 settembre c’erano stati i primi scontri, avviati non solo da militari italiani rimasti fin ad allora nascosti nei sotterranei del liceo Sannazaro e in case private, ma pure da un certo numero di civili, anche se la vera e propria sollevazione popolare di Napoli sarebbe esplosa il giorno seguente, con un dilagare per le strade e le piazze di frotte di partenopei armati d’ogni classe sociale, dagli ultra popolani agli intellettuali, presenti anche ragazzini dodicenni e giovani donne.In quegli anni in Italia ci si dava del voi e non del lei come oggidì. Il lei era stato vietato dal fascismo fin dalla metà degli anni ’30 del XX secolo, essendo stato giudicato un pronome allocutivo di origine spagnola e non italiana - in realtà era usato sicuramente, quanto meno verso i potenti, già nel XV secolo, anche se tal uso s’era generalizzato solo dal XVI in poi, effettivamente per influsso dello spagnolo -; per di più l’uso del lei era stato vietato, non comprendendo evidentemente il ridicolo dell’osservazione, perché considerato non degno della virilità fascista essendo pronome allocutivo di genere femminile.

      Da sempre peraltro i napoletani si erano dati del voi, sia nel loro dialetto, sia traslando in italiano.

      Capitolo 3

      Il giovane vice commissario giustiziere di tedeschi e incaricato d’inquisire l’uomo in salopette era un ventiquattrenne, napoletano di nascita e per discendenza materna. Portava fitti capelli neri naturalmente ricci, tenuti corti alla militare secondo il regolamento di quegli anni. Era di non di alta statura, un metro e sessantacinque, ma ben proporzionato e robusto. S’era laureato in giurisprudenza alla Federico II di Napoli con lode e dignità di stampa e, se di mente era brillante, d’animo era pulito, formato in famiglia e in collegio secondo classici principi etici, in sostanza i precetti dei 10 comandamenti giudeocristiani. A causa però della verde età, che poche disillusioni gli aveva fatto soffrire per il momento, Vittorio D’Aiazzo era un poco immodesto. Abitava col papà, Amilcare D’Aiazzo tenente colonnello dei Regi Carabinieri, e con la mamma, signora Luigia-Antonia diplomata maestra elementare ma casalinga, nel loro appartamento di proprietà, non situato in zona prestigiosa come sarebbe piaciuto alla famiglia, per esempio non in via Caracciolo o sulla Riviera di Chiaia, ma nel popolare rione Sanità, in via San Gregorio Armeno su cui s’affacciavano abitazioni alla portata dei non pingui stipendi, in quell'epoca, e dei non eccelsi risparmi d’un ufficiale superiore dell’Arma Benemerita. Al momento Vittorio viveva da solo nell’alloggio, a parte una donna a mezzo servizio, ché la mamma era sfollata in campagna all’inizio della guerra e il padre, da un paio di settimane, aveva passato le linee nottetempo, benché sessantunenne, quindici anni più della consorte, per non restare, di fatto, agli ordini dei tedeschi occupanti e per raggiungere il proprio sovrano. Aveva fin a quel momento prestato servizio nel 7° Gruppo Provinciale Carabinieri di Napoli, quale capo della Sezione Coordinamento Investigativo Provinciale. I coniugi D’Aiazzo avevano due figli maschi. Mentre erano orgogliosi di Vittorio, non potevano stimare l’altro, Emanuele, che fin da bambino era stato un indolente: dopo bocciature diverse, preso il diplomino delle elementari soltanto a quattordici anni e col minimo dei voti, aveva abbandonato i non sudati studi all’inizio del primo anno della scuola complementare per l'avviamento al lavoro, cui il padre s’era rassegnato a iscriverlo perché, a differenza del ginnasio10 , non prevedeva un esame d’ammissione. Sedicenne, era scappato da casa, senza poter essere rintracciato dalla forza pubblica, dando notizie di sé solo dopo anni, una volta maggiorenne11 , con un’unica cartolina illustrata, indirizzata alla mamma, spedita dalla Svizzera nel maggio 1940, con poche parole di saluto. Non essendosi Emanuele presentato alla visita di leva, era stato considerato renitente e condannato in contumacia alla prigione dal Tribunale Militare di Napoli; e scoppiata la guerra, era stato considerato disertore. Il tenente colonnello D’Aiazzo aveva avuto un danno d’immagine da quel figlio e temeva che, a causa sua, non sarebbe più salito di grado, nonostante gli ampi meriti personali. Di più Vittorio, per le colpe del fratello, non aveva potuto seguire le orme paterne ed entrare nell’Arma, come avrebbero voluto tanto lui che i genitori; a quei tempi infatti, non solo i personalmente disonesti, ma anche coloro che avevano ascendenti o parenti non assolutamente specchiati non potevano presentare domanda per la Benemerita. Amareggiato ma non rassegnato del tutto, Vittorio s’era laureato e aveva partecipato al concorso per vice commissario nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, ente che richiedeva solo l’integrità personale dell’aspirante e non pure dei dei suoi congiunti. Aveva superato brillantemente la prova e, al termine della successiva scuola di specializzazione professionale, era risultato il primo in classifica, con buone speranze, dunque, d’essere esaudito nella scelta della destinazione, la sua Napoli; e proprio nella domestica città era stato assegnato.

      Dopo aver letto il breve rapporto del maresciallo Branduardi, il vice commissario D’Aiazzo s'era diretto alle camere di sicurezza, al piano terra, e vi aveva osservato la figura del sedicente Gennaro Esposito. Era sceso quindi nell’umido archivio sotterraneo e vi aveva controllato se qualcuno con quei dati anagrafici risultasse schedato e se le sue foto, di fronte e di profilo, corrispondessero alla fisionomia del prigioniero. Aveva trovato diverse cartelle segnaletiche con gli stessi nome e cognome, ma tutte riguardanti persone di lineamenti differenti da quelli del presunto assassino. Tornato nel proprio ufficio, s’era fatto condurre il fermato.

      L’aveva inquisito con l’aiuto del proprio assistente brigadiere Marino Bordin che, seduto al proprio tavolino, aveva battuto le domande del superiore e le risposte dell’interrogato sulla macchina per scrivere dell’ufficio, un’obsoleta Olivetti M1 nera modello 1911.

      Il Bordin era un veneziano biondo robusto, alto un metro e ottanta. Quarantacinquenne, serviva in Pubblica Sicurezza da un quarto di secolo e aveva moglie e due bambini, che aveva sfollati in una casa colonica nella campagna napoletana, sacrificando all’agricoltore ospitante i due terzi del proprio stipendio e rassegnandosi, col rimanente, a mangiare e dormire in caserma.

      Per ore l’indagato, senza demordere, aveva detto e ripetuto, in un corretto idioma che faceva pensare avesse frequentato almeno le classi elementari, assai severe a quel tempo, d’essere un cuoco disoccupato, d’abitare, così com’era scritto sulla sua patente, in vicolo Santa Luciella e che stava rientrando a casa quando aveva visto la porta di casa della morta accostata e aveva udito gemiti provenire dall’interno: per mero altruismo


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