Peccati Erotici Delle Italiane 2. Giovanna Esse
se le fosse capitato di aver bisogno di qualcosa. Accettai di buon grado e non me ne pentii: oltre a trovare un diversivo piacevole alla monotona estate, a casa di Elena ero trattato come un principe. Mi faceva trovare sempre qualcosa di buono per merenda, potevo leggere ciò che volevo o guardare la tv, a mio piacimento. Ma la cosa che preferivo era aiutarla e stare con lei.
* * *
Faceva caldo ed Elena indossava sempre cosette molto leggere. Spesso apriva del tutto quei camici fiorati e poi si scherniva dicendo che potevo essere suo nipote e che con me non provava soggezione. Invece io provavo un miscuglio di emozioni e la spiavo sperando di non essere notato: infatti, non mi ha mai sgridato.
Una volta la aiutai a raggiungere il bagno ma, quando entrò, Elena non chiuse la porta: âAbbi pazienza, Mario, ma mi gira tanto la testa. Lascio la porta accostata... dovessi sentirmi maleâ.
Invece la lasciò spalancata ed io rimasi talmente sconvolto dalla facilità con cui fece scendere le mutande nere, mostrandomi il sedere bianco da matrona, che non riuscii a fingere di non guardare. Lei mi vide e, mentre orinava con suono scrosciante, deliziosamente mi sorrise.
La mia libertà di movimento aumentava sempre più a casa di Elena. Quando il mio pisello si gonfiava troppo nei pantaloni leggeri, chiedevo di andare in bagno con una scusa e, con le immagini di lei, scoperta, stampate negli occhi, mi masturbavo incessantemente, anche due volte nello stesso pomeriggio.
Un giorno mi chiese se potevo passarle sulle gambe una crema medicinale. Aveva una camicetta già sbottonata sul reggiseno nero e una gonna leggera che sollevò davanti a me. Anche i suoi slip erano neri, come il solito, ed io sentivo la terra venirmi meno sotto i piedi: potevo toccarla ma ero terrorizzato. Avevo paura capisse che le mie carezze nascondevano il mio infinito desiderio. Ero soltanto un ragazzo! Spalmare quel prodotto scivoloso sulle sue cosce depilate, arrendevoli, era una specie di biglietto per il paradiso.
Mi fermò un attimo la mano e chiese, innocente: âMario, siamo sicuri che la porta sia chiusa?â.
Mi mandò a controllare e quella complicità così intima mi fece bruciare le tempie, tornando sui miei passi mi girava la testa, come se fossi ubriaco.
Quando rientrai in camera, si stava abbassando anche le mutande e, per la prima volta nella mia vita, mi trovai a pochi centimetri dal suo cespuglio nero. Avevo intravisto già una figa ma mai così da vicino.
âNon ti scandalizzare, lo so che sei un bravo ragazzo. Vedi, così puoi muovere meglio le dita: mi farà beneâ.
A furia di salire tra le cosce e di scivolare con le dita, le entrai dentro con lâindice un paio di volte. Controllai il suo viso, aveva gli occhi socchiusi e unâespressione estatica: non si lamentò, non disse nulla. Non ero più padrone dei miei gesti, iniziai a frugare in quello spacco che sembrava non finire mai tanto era arrendevole, succoso, dolce, caldo e accogliente.
Il giorno dopo mâinsegnò a succhiargliela.
Paradiso e inferno
La toccai, senza parlare, per due o tre giorni. Mi permise di esplorare il suo corpo, quel corpo che avevo tanto sognato, desiderato. Non mi sembrava vero: ero quasi infantile nella ricerca affannosa delle sue carni. Mâinfilavo sotto gli slip, sotto i seni umidi di sudore, la toccavo in tutte le posizioni; mi alzavo in piedi e mi mettevo alle sue spalle, per toccarla dall'alto oppure mi prostravo per terra, per infilarmi da sotto il tavolo nel profumo misterioso della sua intimità . Quando proprio non ce la faceva più, dopo ore di carezze libidinose, mi tirava la testa con le mani e mi affogava nella sua fregna. I peli trasudavano liquidi che io leccavo e suggevo, fino all'ultima gocciolina. Lei sussultava sulla sedia, o sul letto, quando veniva. Voleva che leccassi in fretta in quei momenti, e si mordeva le labbra mugolando per non gridare.
Poi venne la fine di quella settimana pazzesca, e câera suo marito, di sopra. Poi il lunedì lei andò al controllo e il martedì nemmeno stette in casa. Impazzivo di desiderio: contavo le ore, i minuti. Non mi toccavo, resistevo. Speravo che Elena mi facesse fare ancora qualcosa, speravo che un giorno mi avrebbe chiesto di mostrarle il mio cazzo. Svevo i brividi solo a pensare alle sue carezze. Ma avevo troppa paura che non fosse durissimo, o che lei lo avrebbe trovato troppo piccolo, infantile.
Il giovedì, finalmente, mi chiamò. Si comportava come se non fosse mai successo niente ed io mi sentivo morire, non sapendo cosa fare per rompere il ghiaccio.
Mi chiese di leggerle un articolo di un giornale che non avevo mai visto, si chiamava abc. Prima non ci feci caso, per quanto ero impacciato, poi mi accorsi che câerano storie eccitanti e foto di donne nude.
âTi piace?â chiese con un sorriso malizioso. Poi la sua mano chiara sâinfilò nei miei pantaloni e, piano, mi cercò il pene. Sentii che lo stomaco veniva come strizzato, e tremavo. Elena mi fece qualcosa che non scordai più. Era seduta sul bordo di un piccolo divano; con delicatezza mi fece girare, invitandomi, con la sola pressione delle mani, ad abbassarmi verso il tavolo del soggiorno. Non capivo cosa stesse per succedere ed ero incapace di reagire: mi chinai fino a poggiare i gomiti sul tavolo da pranzo.
Lei, da dietro, mi sbottonò la cinta e mi calò i pantaloni fino alle ginocchia, ma non tolse le mie mutande bianche; ricordo che arrossii mentre pregavo fossero pulite. Un ragazzo non ci pensa troppo a queste cose ma in quel momento mi vergognai fino al midollo. Mi aprì le gambe, stavolta agiva solo da dietro; dal bordo laterale delle mutande fece trasbordare i miei genitali, compreso lo scroto, con le palle che sentivo quasi bollire.
A questo punto le sue dita, prima delicate come una piuma, divennero forti ed energiche, come quelle delle infermiere: con fermezza piegò il pisello, che non era mai stato tanto duro e svettante, tutto giù, come se volesse spezzarmelo. Temetti di provare dolore, invece fu solo una sensazione strana, talmente piacevole che avevo paura di fumare dalle orecchie, tanto ero bollente. Con gesti decisi, quasi meccanici, Elena cominciò a mungermi lâarnese verso il basso. Andava su e giù, con un ritmo che mi annientava, sembrava un movimento automatico, inesorabile.
âTi piace?â La voce era roca ma umana, perché per il resto sembrava che una macchina del piacere stesse riservando un trattamento incredibile al mio pistoncino.
Non riuscii a dire niente, non risposi. Dopo poco iniziai a traballare sulle gambe, mentre reagivano da sole, provai lâorgasmo più bello e più lungo della mia vita. Infinito, stupendo, mentre la mia aguzzina sembrava non accorgersi del latticello che, copioso, imbrattava il pavimento a ogni munta.
âCaccia, caccia tutto quello che hai, piccolo mioâ disse con tenerezza. âGodi? Ti piace?â
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