Venezia. Ciminiere Ammainate. Alfredo Aiello

Venezia. Ciminiere Ammainate - Alfredo Aiello


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vertenza Alucentro. È anche l’occasione per puntualizzare alcune inesattezze che su questa vicenda sono state scritte. Utilizzerò, a tale proposito, un testo in cui, come dice lo stesso autore nell’Avvertenza,

      

      

       "i personaggi – a partire dal protagonista – che compaiono nel libro sono perlopiù inventati; e inventate sono molte scene che tra essi si svolgono... [per poi specificare ciò n.d.a. ] che ai curatori del volume sta più a cuore: la pubblicazione della vertenza che ha permesso all’ex Cdf [Consiglio di fabbrica, n.d.a.] Alucentro di opporsi all’ennesimo scambio di posti di lavoro con ammortizzatori sociali". (36. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, Marsilio, Venezia 1994).

      

      

      C’è da chiedersi, visto l’importante obiettivo dei curatori, per quale ragione si fa ricorso a personaggi inventati, quando si poteva ricorrere ai protagonisti reali. Personaggi inventati possono facilmente portare a storie inventate, che mirano a imporre un punto di vista. Non si può mettere in discussione (si dovrebbe farlo?) la buona fede, ma la verità che può emergere dal testo di Cerasi non rende giustizia alle capacità del giovane e promettente scrittore. La mia analisi critica si fonda su alcuni assunti. Il primo: non è affatto vero che la storia sindacale di Porto Marghera sia la storia dello “scambio di posti di lavoro con ammortizzatori sociali” come è detto nel romanzo. È un giudizio ingeneroso, ad esempio, contro la storica lotta dei lavoratori della Sava, che con oltre 800 ore di sciopero seppero conquistare, già oltre vent’anni prima della vertenza Alucentro, alternative produttive alla chiusura della fabbrica, con la costruzione di nuove aziende. Lo stesso può dirsi per la lotta, a metà anni Ottanta, dell’Alluminio Italia di Marghera. È ingeneroso verso le lotte che migliaia di lavoratori per lunghi anni hanno sostenuto per la creazione di nuove attività e non certo per l’estensione degli ammortizzatori sociali. È ingeneroso verso coloro che in cassa integrazione hanno accettato di dedicarsi, come ripiego estremo e non certo come occasione festosa, ai “lavori socialmente utili”, per non perdere la dignità e l’identità di lavoratore. A meno che Cerasi non voglia, invece, sostenere che i lavoratori volevano “battersi” per il lavoro e il sindacato si “accordava” per ottenere ammortizzatori sociali. In realtà, quando le vertenze per la difesa dell’occupazione minacciata si sono concluse senza l’acquisizione di alternative produttive e con il solo ricorso agli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, prepensionamento, mobilità), questo è dipeso soprattutto dalla indisponibilità (e dalla mancanza di un interesse) di gruppi imprenditoriali privati, come dimostra – ma in senso opposto – la stessa vertenza Alucentro. Non si dimentichi, poi, che dove è passata la logica dei soli ammortizzatori sociali (comunque una difesa di certe condizioni) si trattava quasi sempre di aziende sindacalizzate, prevalentemente di maggiori dimensioni e con capitale interamente o parzialmente statale e non di quelle piccole e private, dove la crisi aziendale portava semplicemente ai licenziamenti, lasciando ai lavoratori la sola possibilità di autotutelarsi. Ma cosa è successo all’Alucentro? L’azienda di Porto Marghera, di proprietà dell’Alusuisse (la stessa multinazionale svizzera della vertenza Sava del 1972) produceva anodi per le celle elettrolitiche per la produzione di alluminio della Tlm, un’azienda dell’allora Iugoslavia collocata a Sebenico. Nel settembre del 1991 la guerra etnica in Iugoslavia fa cadere la Tlm sotto i bombardamenti. L’Alucentro perde il principale cliente e l’apertura della cassa integrazione diventa la prima conseguenza per i lavoratori di Porto Marghera. Per una fase non breve l’azienda funziona a regime ridotto nell’attesa di un’auspicabile ripresa produttiva della Tlm. Il conflitto in una Iugoslavia che si frantuma in più Stati non lascia ben sperare. È a questo punto che si pone il “che fare”? L’Alusuisse intende chiudere completamente l’attività, i lavoratori e il Cdf si oppongono e chiedono di trasferire alcune commesse di lavoro dallo stabilimento del gruppo Alusuisse di Rotterdam a Porto Marghera. Il sindacato territoriale, invece, apre sul fronte delle alternative produttive, mettendo in risalto i pericoli di logoramento conseguenti a una lotta che aspirava a salvare impianti che non si sapeva se, quando e per chi avrebbero poi dovuto riprendere a produrre. Dice il protagonista inventato da Cerasi nel suo libro, come se fosse non inventato:

      

      

       “... semplicemente si era aperta una diversità di vedute tra chi riteneva che si potesse ancora giocare qualche carta per impedire la chiusura dell’Alucentro e chi invece era del parere che la nostra lotta per il lavoro dovesse ricominciare dall’acquisizione del dato che la fabbrica era ormai inevitabilmente destinata alla chiusura”. (37. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, Marsilio, Venezia 1994, p. 82).

      

      

      Questo confronto, con tratti anche molto aspri, si esplicitò in continue assemblee dei lavoratori dell’Alucentro, dove sempre prevalse la posizione del sindacato, nonostante la costante contrapposizione della maggioranza del Consiglio di fabbrica. Ma qual era la posizione sindacale? Nella relazione introduttiva al Comitato Direttivo della Fiom-Cgil veneziana del 26 ottobre 1992 si legge:

      

      

       "Domani mattina saremo al Ministero del Lavoro insieme alla multinazionale svizzera Alusuisse. Dieci anni fa avremmo messo in campo tutte le iniziative per impedire la chiusura, poi alla fine – se isolati e senza essere riusciti a modificare le posizioni dell’azienda, cioè sconfitti – ci saremmo “accontentati” degli ammortizzatori sociali. Oggi, almeno per me, ciò non è più possibile. Cioè se il Governo ci dirà: si chiude e per i 180 lavoratori sarà garantito il prepensionamento, la Cig, l’incentivo per chi sceglierà di andarsene, io sono per dire che tutto ciò da solo non ci interessa e che abbiamo bisogno di ottenere qualcosa di più e di diverso e cioè, da parte di Alusuisse o di altri, vogliamo in quell’area nuovi investimenti e il Governo insieme con altri – la Regione, il Comune – deve fare la propria parte per questo obiettivo. Gli ammortizzatori sociali – accettati senza null’altro – significano la morte di Marghera". (38. Aiello A., Articoli, interviste, interventi, 1975-2004, Relazione introduttiva al Comitato Direttivo della Fiom-Cgil, 26 ottobre 1992, dattiloscritto).

      

      

      Nel libro di Cerasi si legge anche una Postfazione di Giancarlo Fullin che può aiutarci nella comprensione dello scontro tra le due diverse linee politiche. Una lunga citazione:

      

      

       Viene infine novembre [1992, n.d.a.] e la notte del 17 [in realtà è il 5 e non il 17, n.d.a.] a Roma, malgrado tutto e malgrado il voto contrario di otto dei nove lavoratori del comitato di lotta presenti, il sindacato sottoscrive l’accettazione della chiusura dell’Alucentro [in realtà l’accordo è stato “siglato” e sarà sottoscritto solo dopo il parere favorevole dei lavoratori, n.d.a.] e l’inizio della cassa integrazione invece della mobilità [cioè licenziamenti, n.d.a.]. La mattina seguente i dirigenti sindacali si presentano in azienda di buon’ora (sono rientrati in aereo) a presentare l’accordo ai quadri del sindacato in fabbrica. Solo a fine mattina arrivano invece, in treno, i membri del comitato di lotta a spiegare le ragioni del loro rifiuto. Poche ore di differenza ma sufficienti perché il clima sia divenuto teso e sospettoso, e il giorno successivo [ il grassetto è mio] l’assemblea ratifica, sia pure a maggioranza, l’accordo [solo dieci i contrari, n.d.a.]. (39. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, cit., p. 130).

      

      

      Tutto questo non è sufficiente e dopo l’esito della votazione dell’assemblea «si apre (...) la fase più difficile dell’intera


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