Venezia. Ciminiere Ammainate. Alfredo Aiello

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dunque la teoria di Marx per praticarla in maniera sempre più adeguata alle esigenze determinate e diverse della lotta di classe – sia come critica dell’economia politica che come teoria del partito: questo è il compito che ci è dato”. ( 30. Negri A., Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 5-6).

      

      

      E ancora:

      

      

       “Ma il progetto capitalistico oggi non interpreta solo la forza dell’impatto operaio sulla struttura dello Stato pianificato: tenta di interpretarne anche la forma, la figura cioè in cui esso si è sviluppato, la figura dell’operaio massa. Interpretarla per assumerla e distorcerla. La fluidificazione di tutti i momenti del ciclo produttivo rappresenta la faccia positiva del progetto capitalistico, la ristrutturazione vera e propria – con contemporaneo aumento della produttività delle forze del lavoro singolo e del lavoro sociale... “. (31. Negri A., Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1974, p. 34).

      

      

      E in un testo di qualche anno dopo:

      

      

       “... torniamo al significato fondamentale di questo libretto e alla proposta che in esso si contiene. Essa consiste nella convinzione che la crisi dell’operaio-massa determina un allargamento dell’esistenza cosciente e delle rivolte proletarie e che è in riferimento a questa nuova dimensione della proletarizzazione che il progetto di organizzazione deve essere messo in atto. Consiste inoltre nella convinzione che su questa nuova dimensione la richiesta proletaria di comunismo, subito, è più larga e pressante che mai”. ( 32. Negri A., Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 8-9).

      

      

      Sono posizioni politiche che mirano ad “attaccare” e “demolire” il modello di sviluppo capitalistico e a conquistare, su quelle basi politiche, la classe operaia. Ma la presenza organizzata di sindacati e Pci fa da barriera. I comunisti, anche a Porto Marghera, erano abituati a due tipi di anticomunismo: quello di destra, che si manifestava con la pregiudiziale verso ogni forma di partecipazione del Pci al governo del Paese, e quello di sinistra che si esprimeva tradizionalmente, come evidenziato da Angelin, in una contestazione ai vertici del Pci (e del sindacato) in quanto partito riformista, accusato di aver abbandonato la prospettiva rivoluzionaria. Era, quest’ultima, una critica che mirava a creare una frattura tra base e vertici sia nel Pci che nel sindacato, per spingere verso lotte “rivoluzionarie” ampie masse di lavoratori.

      

      

       Non a caso molti, o quasi tutti, i leader della contestazione studentesca del ’68 uscivano dal Pci e passando dall’organizzazione dei gruppi avevano in mente proprio un disegno del genere. (33. Cfr. l’intervento di Asor Rosa A., in Bianchi S., Caminiti L. (a cura di), Settantasette. La rivoluzione che viene, DeriveApprodi, Roma 2004, p. 149).

      

      

      Sempre Angelin ci ricorda che a questi attacchi il Pci rispondeva «senza concedere nulla. Poi i militanti di Potere Operaio “scoprono” il “nemico” che detiene per davvero il potere e ostacola l’avanzamento della classe operaia: la Democrazia Cristiana e la Confindustria. E parecchi di questi militanti, quando Potere Operaio si scioglie, entrano nel Pci». Ma non sarà un passaggio breve, né senza contraddizioni. In quei giovani vi era un nuovo modo di concepire e praticare la lotta al Pci. È un’evoluzione, prodotta da un gruppo di intellettuali che consideravano la loro capacità di analisi politica superiore e che perciò erano convinti che avrebbero sconfitto il gruppo dirigente del Pci. Non tutti puntavano a questo obiettivo. L’intervista a Gianni Pellicani mette in rilievo la scelta consapevole di alcuni intellettuali, dirigenti del movimento studentesco e di Potere Operaio, Massimo Cacciari in particolare, che partivano dalla premessa che il Pci era entrato in crisi di fronte a una ristrutturazione capitalistica conseguente a una ristrutturazione delle lotte. Affermava Cacciari nel 1985:

      

      

       “... La nostra presenza [di Potere Operaio, a Porto Marghera] rimane limitata alle “nuove” fabbriche. È insieme un “segno dei tempi” e la dimostrazione che l’organizzazione complessiva della classe operaia non si “inventa” fuori della storia del movimento operaio. Anche su questi motivi matura la rottura tra Negri e me, nell’estate del 1968... Alcuni idioti hanno recentemente lasciato trasparire l’ipotesi che sia avvenuta sui problemi della “militarizzazione”. Mi spiace deluderli nella loro ricerca di arretrare il più possibile l’origine del terrorismo rosso. Ma la rottura con Negri avviene essenzialmente sul problema del partito”. (34. Calimani R., Pierobon V. (a cura di), Le radici del futuro, Regione del Veneto e Marsilio Editori, 2005, pp. 28-29).

      

      

      Nei contestatori del Pci vi era anche un’idea precisa sulle disuguaglianze sociali, sempre più percepite come elementi di esclusione dalle opportunità di vita. Valevano, insomma, più le norme e i valori esterni ai luoghi di lavoro che le condizioni di lavoro in sé. Ecco perché Toni Negri saluta con piacere da un lato la scomparsa dell’operaio-massa e dall’altro le nuove forme di emarginazione che vedono la luce. In ciò Negri, proprio come André Gorz quasi un decennio dopo, ha colto spazi di manovra politica per i movimenti sociali radicali. In Addio al proletariato, Gorz sostiene, in straordinaria similitudine con Negri, che una « non classe di non operai», che non si identifica né con l’idea dell’«operaio» né con quella del «disoccupato» ma che si inserisce nel settore dell’«occupazione aleatoria, a termine, occasionale, provvisoria e a tempo parziale», è salutata come la forza nuova di una radicale trasformazione sociale (35. Gorz A., Addio al proletariato. Oltre il socialismo, Edizioni Lavoro, Roma 1982, p. 69).

      Con questo retroterra politico emersero anche movimenti di estrema sinistra come Avanguardia Operaia e Lotta Continua che puntavano a rivendicazioni “massimaliste” in aperto antagonismo al Pci e ai sindacati.

      

      

      

      

       Difesa dell’esistente o nuove iniziative industriali? La vertenza Alucentro

      

      

      Nelle crisi aziendali si sono quasi sempre misurate due linee sindacali e politiche nettamente contrastanti. La prima mirava alla difesa dell’esistente ed era rappresentata dallo slogan «Nessun posto di lavoro si tocca». Era una linea che dichiarava l’irreversibilità della crisi qualora, nel polo industriale, si arrivasse sotto una data soglia occupazionale. Praticamente, una chiusura totale a ogni trattativa che presupponesse la riduzione degli occupati. La seconda, invece, era una linea disponibile alla contrattazione, nella convinzione che un’ ideologica “difesa dell’esistente” portasse a un logoramento dei lavoratori e del sindacato senza evitare i contraccolpi negativi sull’occupazione. Si può dire che la prima tendeva ad affrontare la questione politicamente: gli accordi cartacei con le alternative ai licenziamenti non bastano, esse vanno costruite effettivamente e solo dopo si accetterà non i licenziamenti, ma il passaggio da un lavoro a un altro. La seconda, più “morbida”, considerava più efficace mettere le mani nel “piatto” per non correre il pericolo di limitarsi ad affermazioni di principio che non avrebbero né fermato i licenziamenti,


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