Castel Gavone: Storia del secolo XV. Barrili Anton Giulio

Castel Gavone: Storia del secolo XV - Barrili Anton Giulio


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siamo satolli e si parte. Fa intanto stringer le cinghie ai cavalli.

      –Sarete serviti, magnifici messeri; e caverò fuori un fiaschetto di malvasia, che vien proprio da Candia, pel bicchier della staffa.

      –Sta bene; e tu piglia questo per l'opera tua; credo che basterà.—

      Così dicendo, messer Pietro gli pose in mano un genovino d'oro.

      –Corbezzoli, se basta!—gridò l'ostiere, facendo tanto d'occhi a quel lucicchìo.—Tornateci domani, sul conto, e doman l'altro, se vi piace; l'Altino è vostro, messere.

      –Se non ci avesse a costare che questo,—borbottò il Picchiasodo,—e' sarebbe a straccia mercato.—

      Il genovino d'oro, valeva allora quindici grossi, che erano intorno a tredici lire della nostra moneta presente, ma che, fatto il conto dei tempi diversi e dei mutati prezzi delle derrate, potrebbero ragguagliarsi al doppio di questa valuta. E ciò spieghi la meraviglia della contentezza di mastro Bernardo; il quale si avviò gongolante all'abbaino, per dove era già scomparso il ragazzo.

      –Che matrimonio ha da essere!—andava dicendo l'ostiere tra sè.—Non è più di primo pelo, ma e' ci ha un'ariona da principe, questo messere…. A proposito; la Rosa mi aveva pur detto il suo nome! Tamburlano? No. Canterano? Nemmeno. Certo comincia in ca…. Vediamo un poco!

      Messer Pietro si era mosso dalla tavola, alla volta del murello, e pareva volesse dare un'ultima occhiata al paese. Picchiasodo, da uomo più materiale, era ancora al suo posto, e mostrava cogli atti di voler vedere il fondo all'orciuolo del vino.

      –Scusate, messere;—disse mastro Bernardo, avvicinandosi a lui;—il nome del vostro compagno?

      –Perchè?—dimandò il Picchiasodo, inarcando le ciglia.

      –L'ho sulla punta della lingua;—prosegui mastro Bernardo, senza badare al piglio scontento di quell'altro.—Vedete, messere; sono un povero diavolo d'oste, ma ci ho entratura al castello. Mia moglie è sorella della madre di Gilda, la cameriera di madonna Bannina, e il nome dello sposo io l'ho risaputo. Ca…. Casche…. Aiutatemi a dire!

      –Casche….—ripetè il Picchiasodo, per contentarlo.

      –Sicuro, Casche…. Ma se non mi date voi una mano…

      –Ti cascherà l'asino, lo capisco.

      –Ah, bravo! Cascherà…. Ci sono; Cascherano, Grazie tante! Messer lo conte di Cascherano,—soggiunse allora mastro Bernardo, volgendosi a messer Pietro e sprofondandosi fino a terra,—la grazia vostra!

      –Per chi vi piglia costui?—chiese il Picchiasodo a messer Pietro, mentre quell'altro si allontanava.

      –Lascialo dire;—rispose messer Pietro.—Egli è venuto quassù per farci cantare, ed ha cantato lui per tutti, il baggèo!—

      CAPITOLO II

      Dove messer Giacomo Pico impara che il torto è degli assenti.

      Stropicciandosi le mani in segno di contentezza, tronfio, invanito di quel colloquio, in cui aveva fatto prova di tanta penetrazione, mastro Bernardo scese le scale; indi, comandato al ragazzo che stringesse le cinghie alle cavalcature dei due forastieri, e alla Rosa che pigliasse in cantina un fiaschetto di malvasia, entrò in cucina, dove stava il nuovo venuto impaziente ad attenderlo.

      Era costui un giovinotto di forse venticinque anni, che tale lo dinotava l'aspetto, fiorente della prima virilità, alto della persona, di membra robusto e di belle sembianze, quantunque infoscate un tal poco dalla torbida guardatura degli occhi cilestri e dallo aggrovigliarsi della chioma rossigna in ciocche scompigliate sul fronte. Semplice era la foggia del vestire; portava calze di lana divisata e scarpe di cuoio ruvido, alla guisa dei montanari; in capo aveva un'umil berretta e sulle spalle una cappa di bigello, alla borghigiana; ma il farsetto di cordovano e l'impugnatura d'una brava misericordia, che facean capolino dallo sparato, insieme colla punta d'una spada che usciva fuori ad una rispettabile lunghezza dal lembo della cappa, lo chiarivano un uomo d'armi, per allora fuor di servizio, ma non al tutto fuori d'arnese.

      Il suo nome era Giacomo Pico, figliuol d'Antonio, della terra di Bardineto. Lo si chiamava dimesticamente messer Giacomino, sendo egli venuto in tenera età alla corte del Marchese; ancora lo dicevano il Bardineto, senz'altro, dal suo luogo natale, posto a forse dodici miglia di là, in mezzo ai monti, presso le scaturigini del Bormida. Bardineto apparteneva ai signori Del Carretto, e ad essi molto affezionata era la famiglia dei Pico; singolarmente caro a Galeotto il loro ultimo rampollo, che dapprima eragli stato donzello, indi compagno nelle aspre fatiche di guerra e salvator della vita. Però Galeotto lo teneva sempre al suo fianco, più amico assai che vassallo, e lo adoperava in ogni faccenda che richiedesse fedeltà e segretezza a tutta prova.

      Ragioni queste perchè mastro Bernardo avesse a fargli servitù. Ma, oltrechè non gli sapea menar buono quel suo fare fantastico e il non essersi mai seduto davanti a' suoi fiaschi, quel giorno a mastro Bernardo pareva di aver piantato l'insegna accanto a più gran personaggio che non fosse messer Giacomo Pico.

      Epperò, mentre questi, vedutolo entrare in cucina, si muoveva ansioso verso di lui, quel vanaglorioso d'un oste gli fece a mala pena di berretta.

      –Ve ne prego messer Giacomino, spicciatevi;—soggiunse egli tosto, dopo quell'atto un po' sbrigativo;—ho da offrire il bicchier della staffa a due cavalieri.

      –Erano da te!—sclamò il Bardineto.—Ed io che li cerco da un'ora!….

      –Eh, eh, capisco;—ripigliò mastro Bernardo, con aria di chi sa e vuol lasciarsi scorgere;—il nostro magnifico Marchese li aspetterà.

      –Se li aspetterà! Lo credo io! Sono annunciati certamente da due ore. Io era appunto in volta verso Calvisio,… A mala pena arrivato stanotte!…

      –A proposito, siete stato in viaggio….

      –E lungo; e ho avuto appena il tempo di far la mia relazione al Marchese, ch'egli mi ha mandato fino a Pia per vedere la nuova compagnia di balestrieri che ha presa in condotta testè. Ero salito a Calvisio per dare un'occhiata alla guardia; torno al passo della fiumana e mi dicono che due cavalieri sono discesi verso Castelfranco, avviati pel Borgo. Mi metto sulle loro pedate e non li trovo; alla porta di San Biagio nessuno li ha visti. Rifò la strada, piglio lingua, e sento che si erano fermati all'Altino. Che è ciò? A due passi dal borgo, perchè smontano essi da te?

      –Eh, l'ho detto ancor io; perchè smontare da me? Ma che volete, messer Giacomino? Avran veduto l'insegna: Fermatavi all'Altino, c'è buona l'accoglienza e meglio il vino. E l'han trovato buono, credetemi, quantunque non l'abbiate mai assaggiato. Dopo tutto, o che? dovevano presentarsi al castello a stomaco digiuno, come due pellegrini affamati?

      –Che uomini sono?—dimandò il Bardineto, per metter fine a quella intemerata dell'oste.

      –Non lo indovinate?

      –Eh, forse; due genovesi, dei soliti, che vengono qua, sotto colore d'ambasceria, per curiosare, scoprir terreno e macchinar tradimenti in casa nostra.

      –Che!—sclamò mastro Bernardo, facendo le cocche colle dita,—Più su sta monna Luna!

      –Come? e che altro hanno ad essere?

      –Due pezzi grossi, vi dico io. Cioè, no, dico male; uno grosso soltanto di corporatura, e gli ha da essere lo scudiere, o alcun che di somigliante; ma l'altro….

      –L'altro?

      –Eh, un uomo per la quale, che è aspettato dal Marchese e gli farà molto piacere il vederlo capitare al castello.

      –Non genovese?—ripicchiò il Bardineto, stringendosi nelle spalle.

      –Non genovese; piemontese.

      –Capitano di ventura?

      –Altro ci è; signore di terre e castella. Ma scusatemi, messer Giacomino; e' son qua che scendono le scale.—

      E senza aspettar altro, l'ostiere si mosse, per andare incontro a' suoi ospiti.

      IL Bardineto, rimasto solo in cucina, si accostò alla finestra, che dava sull'aia, ov'erano già i due cavalli, tenuti


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